Disastri Italiani, il Savoia in finale a SanRemo
Rispondo al festival con due mie proposte.
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Alle volte rileggo il mio blog e mi chiedo chi sia Il Sanfedista. Il blog è nato come una segreta valvola di sfogo, i lettori che ha li ha guadagnati sul campo. Solo tre persone che conosco direttamente sanno dell’esistenza di questo mio alter ego. Avrei potuto creare uno spazio di condivisione con le persone che conosco, ho sempre ritenuto più interessante invece confrontarmi con gente che non ho mai visto. Con loro i filtri sono pressocchè nulli e posso esprimermi in maniera del tutto libera.
La vita che conduco e che ho condotto fin ora mi ha consentito di essere a contatto con moltissime vite, di avere -per dirla barbara- innumerevoli numeri in agenda. Non ho mai sentito l’esigenza di schiudere questo mio limbo virtuale.
Come da intestazione sono giurista, scrivo su di un quotidiano e mi accingo a lavorare per una multinazionale farmaceutica all’ufficio stampa. Faccio parte di un club ed ho 26 anni ancora per poco. Glisso sull’aspetto fisico, altrimenti quelle due persone che mi conoscono e che mi leggono -bontà loro- vedrebbero avvalorate le loro tesi sul mio egocentrismo, che invece io sto cercando difficoltosamente di scardinare…
In queste tre righe però non è descritto il Sanfedista, perchè il Sanfedista non potendo avere la materialità si è impegnato sulla profondità. Una profondità che quando la rileggo quasi mi spaventa, perchè se è vero che i migliori custodi dei sentimenti sono i fogli bianchi è altresì vero che i fogli bianchi rimangono anche quando i sentimenti passano.
Il blog, quindi, è uno strumento da usare con molta cautela perchè ti è così fedele che ricorda tutto, e se gli affidi un’emozione stai sicuro che prima o poi te la rinfaccia ed a un tratto la profondità che ti aveva spinto a scrivere ti riappare in veste grottesca, beffarda nel non sentirti più quello che aveva scritto.
Per questo penso che il Sanfedista sia più che me stesso, è, più che altro, un me stesso costantemente aggiornato ma immodificato. Un sedimentare di cose che non sostituiscono le precedenti ma si aggiungono ad esse, lasciando in chi si rileggie un quadro spietato ma in fin dei conti falsato. Perchè noi viviamo e ci modifichiamo mentre il Sanfedista vive solamente: computa, aggiunge, rendiconta ma non elide mai.
Invece la vita personale è così piena di marcie indietro, stravolgimenti, rivalutazioni e cancellazioni che quasi "si è" solo quello che "si è" in quel giorno di vita.
Questo vuole essere un piccolo ringraziamento a chi si è appassionato al Sanfedista e gli ha consentito di raggiungere i 10mila contatti, sono delle piccole istruzioni d’uso che consentiranno a chi vorrà, di proseguire nella lettura essendo più consapevoli di come il proprietario del Sanfedista vive e pensa il suo spazio.
E’ di pochi istanti fa la notizia che il pittoresco e tranquillizante carrozzone delle Nazioni Unite ha approvato la moratoria sulla pena di morte.
Non ho mai amato la pena di morte. Non ho mai pensato potesse essere una soluzione. Le questioni che supportano le mie convinzioni sono essenzialmente due: quella morale, marginalissima, e quella, più consistente, funzionale.
Le questioni morali sono dettate da una generica etica "cavalleresca"; con la pena di morte si uccide ad armi impari e questo uno Stato non può farlo se non perchè drammaticamente minacciato.
In guerra si uccide per salvaguardare, si uccide poichè sarebbe irrealizzabile una detenzione massiccia. Ma questo è un altro discorso.
Tornando a bomba sull’argomento, mi dilungo nel motivare perchè la pena di morte non garantisce la funzionalità. La pena di morte non credo sia satisfattoria nei confronti delle vittime, sono morte, ma asseconderebbe un rabbioso spirito dei familiari: lo Stato deve garantire ordine, non vendetta. La pena capitale, inoltre, non attua alcuna forma di rieducazione, badate, uso il termine "rieducazione" che prescinde da un eventuale reinserimento, perchè com’è strutturata consente al detenuto di trovare, paradossalmente, nella morte quasi una sorta di liberazione dalla drammatica ripetività della vita in cella.
La soluzione è una: i lavori forzati.
I miei studi giuridici mi hanno portato alla conclusione che un soggetto nel momento in cui compie un crimine contrae un debito con la società. L’unico metodo per ripagare un debito è con il lavoro. Credo sarebbe più satisfattorio e funzionale imporre al detenuto, che si è macchiato di un crimine, un dato periodo di lavoro obbligato. Il periodo sarebbe commisurato alla gravità del reato, si andrebbe, così, dai pochi mesi all’intera esistenza.
Le famiglie troverebbero certamente una maggiore soddisfazione nel pensare che colui che le ha offese, per il resto della sua vita, dovrà alzarsi alle 5 del mattino e spaccarsi la schiena fino alle 5 della sera, senza alcuna possibilità di sconto. In Italia abbiamo risorse non sfruttabili a causa del costo, elevato, della manodopera; bene, si potrebbero impiegare i detenuti; lavorerebbero in miniera, alla manutenzione stradale, alla bonifica ambientale e via dicendo.
Il detenuto, d’altrocanto potrebbe nel lavoro trovare una consapevolezza e, forse, una redenzione, sarebbe, così, meglio rieducato. Crollerebbero, poi, i costi per il mantenimento dei carcerati, poichè verrebbero finanziati con il lavoro dei detenuti stessi. Insomma la certezza del lavoro: faticoso, massacrante, ma sacro per definizione, servirebbe molto di più al sistema che una prosepttiva di morte per iniezione letale.
Temo però che il solo pronunciare "lavori forzati" faccia saltare sulla sedia parte della politica italiana, che per rieducazione intende "permesso premio" e per reinserimento "indulto". Amarezza finale.
…giusto per ricordare ogni tanto che l’unità fu conquista a danno di qualcuno. Scesero per far tornare i conti, depredarono una nazione, chiusero le attività produttive ed implementarono infrastrutture solo in una parte del regno…
Prima non era così; riporto alcuni primati (divisi per anni) del meridione d’Italia prima di essere consegnato alla povertà, prima che facessero nascere una questione, prima che Campani, Calabresi, Lucani, Pugliesi, Siciliani, Abbruzzesi fossero la parte povera, fossero terroni:
Bibliografia.
"Chi vi ha tradito Maestà?", "I giacobini, quei maledetti".
Essere un sanfedista è un po’di più che essere un conservatore, essere sanfedista significa essere un reazionario nel senso ampio del termine; reazione commisurata all’azione. Potremmo gridare "Viva il Re", potremmo gridarlo al popolo basso, ma cosa ne capirebbero? Essere giacobino è facile, si segue il desidero di amministrare in maniera straordinaria. Nell’ordinario si fallisce con il giacobinismo, con gli editti. Se marciammo lo facemmo contro i traditori, contro i giacobini, i patetici idolatri della fantasia al potere. Alle volte la fantasia non è per noi, siamo sanfedisti, fantastici più che fantasiosi…