La vita di un tale Harald

scritto da sanfedista il 9 maggio 2012,18:09

Il pavimento a scacchi del salone obbligava Harald a prestare la massima attenzione a dove metteva i piedi. Il suo cervello gli indicava di porre i passi solo sulle mattonelle bianche. Ogni movimento quindi era soppesato e valutato attentamente. I suoi occhi fissavano il pavimento con lo stesso cipiglio con cui quelli di una signora valutano i cocomeri al mercato. Ogni brava donna, in verità ogni bravo essere umano a prescindere dal genere, ritiene di essere in grado di selezionare attentamente i cocomeri migliori da acquistare. Tutti hanno un loro metodo, un loro luogo di tastatura della cucurbitacea. Ogni macchia gialla o nera è un indizio, ogni rumore, tonfo o secco, un messaggio che fa propendere per la scelta o lo scarto. In caso di dubbio, qualsiasi dubbio, si contatta l’eventuale accompagnatore, che ben felice di applicare la propria metodologia di scelta consiglierà quale tra i vari è quello da comprare. Mediamente le persone trascorrono più tempo nella scelta dell’acquisto di un melone piuttosto che nella valutazione sull’acquisto di un cellulare, nell’assunzione di un medicinale o nella stima d’impulso se si trovano o meno innanzi a un decoroso partner per una gita o per una vita. La scelta di un melone tra l’altro è l’unica azione socialmente accettata che un maschio può compiere al mercato. Quasi ci volesse la freddezza di un uomo e la sua capacità di rompere il traccheggiamento, prendere il coraggio a due mani e caricare l’agoniato frutto estivo in auto. In realtà poi il melone si scopre essere buono o meno solo all’assaggio. Dipende dal caso. Harold non lasciava nulla al caso. Il suo cervello friggeva di terrore nello sfiorare solamente una mattonella nera. Per lui era del tutto normale. Doveva raggiungere la sedia, ma la via era aguzza. Sotto le mattonelle scure si celava probabilmente una atroce lava o un diabolico veleno, o qualsiasi altra metafora che il cervello gli suggerisse per vestire di assurdo e incomprensibile la sua reale motivazione, il suo reale sprone. Perché in verità Harald odiava, ma non lo sapeva, non avere le situazioni sotto controllo.

Si caricava quindi di regole che potessero normare ogni singolo accadimento. E così il tappo della vasca andava staccato con la sinistra, la sveglia andava messa alle sette e ventitré e qualsiasi calciatore che avesse crossato esattamente all’altezza della linea d’aria del portiere sarebbe incorso in una qualche mastodontica ira divina. Come per il resto, in questo caso la sua regola gli aveva impedito il nero. Gli era proibito. Claudicava quindi incerto sul bianco. Passo dopo, passo in avanti. Come un pedone su una scacchiera. O come un alfiere? Harald incominciò ad essere soffocato da questo dubbio. “E se invece fossi un alfiere? Dovrei allora muovermi in diagonale.” Avanzando coi pensieri, che a questo punto lo martellavano, e rimanendo assolutamente immoto con il fisico, si disse che se fosse stato un alfiere non sarebbe mai stato in grado di muoversi in avanti, nemmeno per un mezzo passo. Perché l’alfiere semplicemente non può farlo. Doveva per questo essere per forza un pedone. Non era alto e robusto come una torre, non era raffinato come un re e neppure femmineo come una regina. Era un pedone. Discorso chiuso.

Rinfrancato dalla considerazione riprese a camminare con maggior vigore, quasi che la divagazione scacchistica gli avesse fatto superare l’ansia del mattone nero. La sicurezza però durò solo per pochi passi.  Scorse infatti una mattonella bianca scheggiata e stuccata con una calce ambrata. La purezza era indubbiamente compromessa. Quella non era una mattonella bianca. Probabilmente lo era stata, in un lontano passato o ieri la questione non cambiava. La mattonella scheggiata non era bianca. Fece per muoversi al lato ma si ricordò di essere un pedone. I pedoni, come sanno anche i principianti del gioco degli scacchi, non si muovono lateralmente. Piombò in un buio panico. Di nuovo. La situazione stava velocemente degenerando. Si trovava come al centro di un letto di un fiume in secca, proprio nell’istante in cui avevano aperto la chiusa a monte. Sentiva l’aria arrivare e tra poco sarebbe stato invaso anche dall’acqua. Sarebbe finito travolto. Era solo. Al centro della sala, circondato da mattonelle nere e con l’unica mattonella bianca a portata di passo, irrimediabilmente scheggiata. Sono questi i casi in cui è importante mantenere la calma. Si ripeteva in testa, lo scenario, come se fosse un mantra. “Allora io non posso toccare le mattonelle nere ma solo quelle bianche, sono un pedone, quindi non posso che muovermi avanti, né a lato né dietro né in diagonale, ma davanti a me c’è una mattonella bianca scheggiata, quindi non è una mattonella bianca, non è una mattonella bianca, non è una mattonella bianca, non è una mattonella bianca…ma nemmeno nera!”. Esclamò a voce alta con l’allegria di chi viene a capo di un garbuglio. La questione non era però risolta. Va bene che non era nera però non era nemmeno bianca.”E se non è né nera né bianca significherà che dovrò starci in equilibrio su un piede solo.” Così fece e la soluzione risultò soddisfacente. “Ben fatto Harald”. Si sarebbe stretto la mano, se la qual cosa non gli avesse fatto perdere l’equilibrio. Di lì fu facile: la mattonella bianca successiva risplendeva integra, e raggiungerla con un saltello fu impresa minima.

La sedia si avvicinava sempre di più. Una bella sedia imbottita. In velluto rosso e scheletro in oro. Cardinalizia. Harald sentiva già il sollievo alle gambe finalmente libere dal suo peso. Il morbido tessuto sotto le terga e il sostegno saldo alla schiena. Un perfetto angolo retto avrebbe di lì a breve ospitato il bacino e la schiena. Perfetto perché l’angolo retto è quello più indicato per ospitare un uomo seduto. Certo però non sembrava poi così pulito quel panno rosso. Harold odiava la sabbia e quindi la povere. La sabbia è così, come la polvere, rovina le cose. La sabbia di mare ti fa affondare fino a un certo punto poi l’alluce semplicemente non riesce a scendere oltre. E poi te la ritrovi nei costumi, nelle tasche, nelle scarpe e continui a toglierla dalla macchina fino all’inverno.  Harald proprio non amava la sabbia. Si accumulava in massa sulla spiaggia, senza che apparentemente nessuno ce l’avesse messa. Anzi, la gente la portava via, il mare la mangiucchiava, però anno dopo anno sempre lì sul lido. Harald pensava che il governo di notte lanciasse sabbia sulle coste. Aveva sempre bisogno di una spiegazione e quando non la aveva poiché la sua visione del mondo era parziale inventava delle scorciatoie e ci credeva fermamente, difendendo la sua teoria in pubblico.  Rischiava in questo modo di risultare pazzo. Ma a ben guardare Harald era pazzo. Un pazzo ortodosso. Un pazzo prevedibile e ortodosso. Condizionato dalla regolamentazione personale degli accadimenti. Harald tra l’altro era anche parecchio egotico. Ma il suo egoismo era una spinta necessaria di auto preservazione darwiniana. “Ci sono regole, caro mio. Ed è importante che le persone le conoscano. Ci sono cose che non si possono fare ed altre che si devono fare. Elimina il “voglio” dalla tua vita, vecchio mio, ed avrai trovato il segreto della felicità. E peggio per chi non lo sa”.

Harald non amava particolarmente i colori. Beninteso non li ripugnava, ma li trovava fuori ordinanza. Civetterie per persone originali. Il grigio andava più che bene in ogni situazione. Dalla automobile al gilet. Il grigio è l’equilibrio, un po’ di bianco e, sì, anche un po’ di nero. Aveva però una vastissima gamma di grigi: Grigio chiaro, grigio ardesia, grigio asparago, grigio the verde, grigio ardesia chiaro, grigio argento, grigio talpa, grigio verde, grigio platino e addirittura grigio rosso chiaro. Ovviamente erano tutti colori autorizzati e decodificati nel catalogo come “gradazioni ufficiali di grigio”. Dio non volesse che avesse scelto, seppur tra i grigi, un colore non autorizzato e predisposto.

Harald sapeva che la vita è predisposta. Non era uno stupido. Sapeva bene che seppur le nostre volontà andrebbero verso altro, le nostre scelte devono assecondare la nostra realtà attuale, senza sovvertirla. Harald ricordava bene cosa successe al comandante di un battello di un vecchio documentario. Lo aveva stampato in mente. La corrente spingeva ad ovest e lui doveva andare ad est. Azionò i motori al massimo ed era fermo al centro dell’istmo con i motori che, seppur a piena potenza, contrastavano semplicemente la forza uguale dei flutti. Fermo controcorrente e col motore con i giri al massimo. Che figura per quel comandante. Quando vide quel documentario provò vergogna per quell’uomo e si coprì la faccia proprio come quando al cinema succede qualcosa di imbarazzante per il protagonista.

Com’è banale l’essere umano quando risponde agli stimoli. Ad esempio reagisce ad un pericolo solo, e ribadisco solo, attuando tre possibili azioni:  s’immobilizza, fugge o attacca. Mai che sotto assalto o in imminente pericolo si cantasse a squarciagola. O si saltellasse a destra e a sinistra eccitati. “Con comportamenti strani, senza regole, Harald mio non porterai a casa la pelle, le reazioni devono essere quelle, perché quelle hanno consentito all’essere umano di arrivare fino al duemila”. Diceva la mamma; un’accorta donna di specchiata moralità e mortalità. In genere a questa frase la donna accompagnava anche “Harald, gli impegni si mantengono perché le persone si aspettano da te che tu faccia fede alla tua parola. E pazienza se hai cambiato idea, le persone si aspettano da te quello che non possono ottenere senza di te. Altrimenti non confiderebbero in te. Il bene degli altri è tendenzialmente superiore al tuo. E tu hai meno bisogno di te rispetto a quanto gli altri abbiano bisogno di te”. Harald reagiva a queste parole con serenità. Era felice di non essersi indispensabile. Rientrava nel suo egoismo, nel suo modello di egoismo, un egoismo militante e altruistico per induzione materna. Perseguiva, Harald, le sue scelte perché erano già state prese.

Harald, meditabondo aveva camminato ancora per un po’ e quasi era a portata di mano della sedia. La quale non appariva più così invitante. Anzi a guardarla bene sembrava fosse stata oggetto nel corso degli anni di scarsa manutenzione. Non sapeva esattamente cosa s’intendesse per manutenzione di una sedia. Però la manutenzione era imprescindibile e andava applicata a qualsiasi cosa. Dal Jumbo Jet che passava sopra casa alle 17.44 alle sedie nei saloni.  Senza manutenzione tutto è perduto. Le cose non vanno fatte consumare. Non si devono logorare e se logore vanno prontamente mantenute. Ad esempio se una gamba di una sedia traballa vanno comperati gli appositi feltrini. E e se per caso la commessa preposta alla vendita dei feltrini fosse di cattivo umore e non raggiante, Harald si sarebbe interrogato sul motivo per ore. Non per filantropia, ma perché temeva che forse il suo solito modo di porgere i contanti, un po’ stropicciati al lato, l’avesse turbata in qualche modo. Spinto da quest’ultima considerazione Harald raggiunse il posto e si sedette.

La sala intanto si stava riempendo. Harald per la prima volta dopo giorni riuscì a rilassarsi, la conferenza sarebbe partita a breve. L’argomento era il suo preferito. Erano sei mesi che consumava il programma della giornata, ormai ridotto a pezzo di carta tipo iconografica mappa del tesoro. Harald, disteso, rilassato, con il suo globo totalmente e finalmente sotto controllo, dopo essersi accertato che non intralciava la vista a nessuno, si disse: “Finalmente incomincia la conferenza, la mia conferenza tanto attesa, sull’unico argomento per cui provi passioni ovvero: Considerazioni su…”. Un boato di assi rotti ammantò la stanza. Un sordo rumore di croccante, come patatine giganti masticate da immense fauci riempì inesorabilmente e in maniera assordante l’aria. In questa confusione solo un urlo gridato a squarciagola:  “Alfiere mangia pedone, in D5!!!”. Un immenso Alfiere mangiò Harald, che si era seduto esattamente dove non avrebbe dovuto: in D5. Ma lui non lo sapeva ed il caos come sempre diede forza di sé, riportando ordine con disordine. Perché in fondo la cosa che fa brillare gli occhi ai bambini, Harald incluso, è quando il treno deraglia e non quando inchiodato procede dritto sui binari.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

15 minuti

scritto da sanfedista il 14 febbraio 2012,00:14

Vorrei scriverlo in massimo 15 minuti. Se leggerete in data/orario di pubblicazione 00.15 sarò riuscito nel compito.

Da bambino, a scuola, quando un compito era davvero ben svolto, la maestra Luisa oltre ad attaccare una stellina dorata sul foglio ti dava una “lente di cioccolata”, anche nota come smarties. Ebbene, ne ho mangiate di cioccolate ma quella aveva un impareggiabile ed unico gusto di vittoria. 

Penso che le persone, tendenzialmente, abbiano bisogno di circa 15 minuti di esotico al giorno. Esotico inteso come irraggiungibile e meraviglioso. Le persone, quelle che non hanno il coraggio di sterzare improvvisamente, ricercano nel loro quotidiano piccole dosi di follia controllata. La cocaina, un nuovo profumo al mango per ambienti, una tinta rosso fuoco per i capelli o anche solo modificare lievemente la solita ricetta per la crostata, aggiungendo vanillina. Le persone hanno bisogno di intravedere tra le pieghe del previsto una via inattesa. Una via che non vogliono davvero percorrere ma che da sola da senso alla solita via.

Sono 15 minuti di irrazionalità assolutamente controllata, preconfezionata e facilmente dosabile. Una relazione impossibile e clandestina, che le impegni seriamente per pochi minuti al giorno, è una giusta porzione di abisso al quale affacciarsi, tenendo ben allacciata la cintura di sicurezza. 

Sono scelte estreme che si utilizzano per scusarci con noi stessi di non essere in grado di cambiare e accettare un rischio.

Io nella mia vita ho temuto raramente i cambiamenti. Non ho mai quindi usufruito di piccoli spazi di follia, peccando spesso in senso opposto. Mi sono ritagliato anzi piccoli spazi di normalità, meravigliosi cliché in cui affondare ogni tanto. Sicuri e benefici come un piede nudo affondato nella prima sabbia calda della stagione estiva. Sembra che potrebbe essere risucchiato giù fino alle viscere bollenti della terra, ma noi sappiamo di poterlo tirare su quando vogliamo. Eppure per qualche minuto scaviamo sempre più in profondità con l’alluce, fino ad arrivare alla sabbia umida, che inesorabile ci riporta alla realtà. 

Sono i 15 minuti di cui abbiamo bisogno. I 14 esatti in cui ho scritto meritandomi la lente di cioccolato.

 

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Il cesso libero

scritto da sanfedista il 29 gennaio 2012,19:23

Liberiamoci della libertà. Niente è più vincolante della libertà. Chiudiamoci nella clausura mentale, nell’obbligo, nella grettezza del pensiero unico. Solo così il nostro pensiero cercherà vie di fuga fantasiose e si sublimerà sopra la noia. Solo la monotonia, la monocordìa, partorisce ingegno sanguinate, vivo. La libertà non ci farà mai allungare il collo. Sputiamo sulla libertà.

Se il cesso è libero e noi abbiamo un bisogno, non ragioneremo mai su quanto è prezioso il cesso libero. 

Siamo tutti morti. Morti che seppelliscono morti.

 

 

 

 

 

schemi mentali

scritto da sanfedista il 25 gennaio 2012,19:55

Dire, Fare, Baciare, Lettera o Testamento?

Grazie agli schemi mentali la mosca sbatte ripetutamente sul vetro
Non diamo l’unica risposta esatta, perché sembra inopportuna
Fissiamo la luna, ma per correttezza anche un po’il dito.

 

Dire, Fare, Baciare, Lettera o Testamento?
Tutto. Perché le suddette proposte possono essere concatenate, o le une conseguenze delle altre, anche in ordine differente. Quindi rispondo: tutto. Dico, faccio, bacio, scrivo una lettera e faccio testamento (le cose potrebbero riassumersi in un’unica azione). Non applico schemi mentali e quindi non mi precludo di fare le cose in istantanea contemporaneità. Fossi diverso sarei, un tram su un binario, un criceto in una ruota, un minuscolo borghese o un morto. A quel punto avrei fatto bene a non fare testamento, per non cadere proprio all’ultimo in uno schema mentale. Che si scannino per l’eredità e che vinca il più forte o il più empio.

 

 

 

 

 

Drastico

scritto da sanfedista il 5 dicembre 2011,22:45

 

 

Il segreto per un buon Martini è certamente non lesinare in quanto a Martini.
Spesso capita di trovare terribili Martini acquosi che ti fanno sembrare ottime le patatine rinsecchite e mangiucchiate dai piccioni.
Girandolare casualmente senza vento può apparire alquanto miracoloso un po’come se ti si addormenta il braccio poi pensi di esserti messo in una posizione strana. Ma invece no ed allora ti rimarrà per sempre il dubbio del perché.

 


 

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Che poi non si capisce

scritto da sanfedista il 7 settembre 2011,16:46

Che poi non è sempre chiaro la funzione del no e del si. Dovrebbero essere due punti certi e fissi della nostra vita. Il no e il si. E invece si complicano sempre parecchio e finiamo per non fidarci più solo del no e del si. Ma interpretiamo anche il tono, eventuali tic nel dirli, insomma il no e il si sono diventate solo due semplici indicazioni, hanno perso per molti di noi lo spirito chiarificatorio e definitivo che dovevano avere all’inizio, quando furono pensati. Prima dell’evoluzione della specie, dei bisogni e delle voglie. No?

 

un vecchio con un buffo cappello

scritto da sanfedista il 12 luglio 2011,12:25

Lo so non dovrei riderne ma stamattina ho visto un anziano con un cappello buffo. Un cappello di lana da donna con un fiocco nero. Se sapessi disegnare farei uno schizzo. Ma per rendere l’idea immaginate vostro nonno senza dentiera. Fatto? Bene adesso prendete dal vostro cervello l’immagine di uno di quei cappelli da macchinisti di fine ‘800, appiccicateci sopra un fiocco nero alla hello kitty. Ecco girava con questo buffo copricapo, tutto sudato si trascinava per la strada. Magari aveva l’alzheimer.

 

 

Esplosione di un albero

scritto da sanfedista il 21 aprile 2011,17:55

L’albero esplose. Lo videro fin giù alla contea di Redis. Pezzi di glicine, passiflora e sicomoro ovunque.

Il vecchio beota, Carl, strattonò la moglie, intenta a leggera la “pseudomonarchia dei demoni di Weyer” mentre friggeva scorfani sulla piastra, lei si girò a guardare il lampo accecante dell’albero e rigirò subito dopo uno scorfano.

Radrovitz, il postino ubriacone, quasi cadde dalla bicicletta, stava consegnando un figlio alla vedova Dillinger, quando fu colpito dalla tremenda onda d’urto dell’albero. La vedova Dillinger dal canto suo era bloccata da circa 4 ore nell’ascensore di casa sua. Un villino a basso impatto ambientale costituito di un solo piano, edificato con i soldi ricavati dai sequestri di persona del marito, il fu Houdinì Thomas Dillinger. Medico per vocazione, anatomopatologo, e rapitore amatoriale, sia nel senso di principiante sia nel senso di stupratore di rapite. Ma lei lo amava.

Cristobal, di padre fiammingo e di madre lettone di Vibo (questo il soprannome della mamma in paese a causa della sua preferenza per il talamo) riparava sul tetto l’antenna. Lo scoppio sintonizzò all’istante tutti i canali, in qualità del segnale 10, meno che tele Padre Pio con la diretta dalla bara del Santo che era in qualità 9. Sarebbe risalito sul tetto il giorno dopo per rimodulare tutto daccapo, rischiando di non vedere più nulla.

Cassio l’orologiaio, vedendo dal suo negozio tutto quel fogliame, esclamò che si trattava dei tedeschi. L’amico Agostino lo tranquillizzò dicendo che i tedeschi erano usi far esplodere tè verde. Ripresero entrambi a riparare la pendola del dott. Calvo. Il dottore era effettivamente calvo.

Il barbiere ripuliva con una scopa il salone. La vetrata infranta dallo scoppio fece saettare vetri ovunque. Fu colpito da una dozzina di essi. Di colori blu, bianchi e rossi. Spirò serenamente come sempre aveva sognato. Il testamento fu immediatamente impugnato dal figlio legittimo, Facondo, il fratello germano del barbiere si oppose ma non vi fu mezzo. E mentre le foglie  ancora non avevano smesso di cadere ovunque, Facondo già guidava garrulo la A112 Abarth del padre, come aveva promesso alla fidanzata tanti anni prima.

Clelia, sentito lo scoppio, diede licenza alla cameriera ed abbracciò il suo cane, Maxwell, che la morse. La cameriera, sull’uscio della stanza, spaventata dal boato e dal cane prese le sue cose e accelerò il passo.

In sacrestia padre Giorgio sentì le campane ondulare, pensò all’apocalisse e ne fu sollevato. Isaac il rabbino aveva perso la scommessa e gli doveva 10 pezzi da 8. Isaac il rabbino sentendo anch’egli il frastuono temette nell’apocalisse e inserendosi una matita nel naso diede un colpo secco col volto sul tavolo. La matita penetrò nel cervello senza grossi problemi. Sangue ovunque e via.

Rico mungeva la mucca che da quel giorno non diede più latte. Per un’antica promessa alla fidanzata morta in guerra non uccise la bestia e continuò a vivere astenendosi dai vizi della carne.

Salamandros, il pittore del paese, diede nell’attimo esatto del fragore l’ultimo colpo di pennello della sua vita.

La pattuglia di polizia si vide piombare sulla strada un pezzo di radice – che cadendo aveva denudato la più bella del paese, Isotta, che ora era seduta sconsolata sul ciglio del viale – e si era incastonata nella strada creando una strana forma fallica, indecente. Sopra l’abominevole, quanto casuale, scultura era incastrata la perpetua Giovanna, che rapita dal volo del tronco, ciondolava in uno stato di incoscienza e senza dentiera esclamava bestemmie e oscenità da taverna del porto. In men che non si dica i poliziotti transennarono tutto e dicevano ai passanti che non c’era nulla da guardare. I passanti rispondevano: “il cazzo non c’è nulla da guardare”.

Le nuvole come batuffoli di ovatta su un cielo azzurrissimo e soleggiato, contemplavano Ronnie, il lavavetri. Che per solidarietà all’albero si fece saltare in aria. Sporcando tutte le macchine. Redento, il commercialista, si arrabbio in pochi secondi per ben tre volte con Ronnie. Nell’ordine: perchè gli aveva pulito il vetro, perchè gli aveva sporcato il vetro con pezzi di milza e perchè non poteva più pulirgli il vetro.  Redento guidava quel giorno un automobile di tipo cabriolet, con capotte abbassata.

Tamericio non si accorse assolutamente di nulla. Era infatti morto il giorno prima.

Il sindaco al suo terzo mandato era in campagna elettorale. Proclamò in un istante il lutto cittadino e chiese fondi a Legambiente. Legambiente faxò che gli alberi secondo recenti studi non erano propriamente dei vegetali. Bleffarono clamorosamente. Ma la risposta soddisfò maggioranza e opposizione, si decise  allora di alzare di un millesimo di pezzo da otto la benzina. Perlomeno per pagare chi ripulisse il casino.

Timoty, Ric e Dalton erano alle prese con i preparativi della festa di Leila. Timoty ribadì sul fatto che non si organizza una festa di lunedì, perchè la gente lavora. Avevano finalmente un pretesto per smettere con i preparativi. Leila pianse tutta la notte, anche perchè amava Ronnie.

L’erpetologo del paese, Goia, quella mattina era per funghi. Nel walkmann di marca Sony sentiva la cassetta dei Talking Heads. Fu una mattinata clamorosa, un chilo circa di porcini. Nuovo record stagionale. La canzone Psyco Killer, unita alla sua totale incapacità di distinguere i funghi, gli fece sembrare l’esplosione dell’albero di una bellezza psichedelica. Sentì i colori ma non i dolori. Prognosi riservata. C’è chi dice che se la caverà.

Alabtros, detto Alzheimer, stava tornando dal calcetto, trovandosi oltre la collina dal lato non interessato dall’esplosione vide solo cadere lentamente foglie, in maniera sospesa. Ne raccolse una manciata.

Vicky e Ramon lo stavano facendo per la prima volta. Ramon era alle prese con due piccoli drammi, il reggiseno di Vicky e il preservativo. L’esplosione lo salvò dalla figuraccia. Accorse alla finestra e si accese una sigaretta post coito, perchè già in precedenza venuto all’insaputa di tutti.

Sveva stava aprendo nell’istante del botto una confezione di Somatoline. Usava assumerla per via endoteliale per vincere la cellulite. Battaglia persa da sempre. La cellulite non si combatte certamente sposando un uomo mediocre che non potrà mai pagarti una liposcultura. Il marito di Sveva era dipendente con contratto di consulenza alla Banca Centrale dei Quattro Cantoni Svizzeri, Unica Sede, con il bancomat in riparazione. Il marito di Sveva, tra l’altro era anche povero di famiglia e in quell’istante pensando dall’ufficio che fosse successo qualcosa alla moglie, pianse e ricordò i consigli, inascoltati, del padre, “che era meglio che ti imparavi un mestiere al posto che studiare fuori, che magari con un impiego alle poste a tua moglie ce lo pagavi il chirurgo, ora guarda che cesso che è, solo per colpa tua”.

Roll, l’illusionista, semplicemente sparì urlando “puff”. Il nano Rosco (da leggersi Rosko) iniziò a saltellare come un forsennato. Mezzo truccato e mezzo no, nella sua tutina sgargiante fucsia, fu il primo a soccorrere l’equilibrista caduto. Si sa che quando cade l’acrobata entrano in scena i nani. Questo non dimenticatelo mai e ricordatevene sempre nella vita.

Gaetano guardò l’esplosione direttamente, stava infatti osservando il nido di un fenicottero rosa sull’albero. Dissipata la nube di fumo marrone della corteccia, non rimase più nulla – nemmeno un piccolo insetto di marca Punteruolo Rosa -con suo sommo sbigottimento. Sorrise e si disse “guarda te la natura”. Mise un piede dopo l’altro e andò via fumando.

 

 

Zanzare notturne

scritto da Sanfedista il 9 novembre 2010,23:57
Siamo a novembre. Ci sono le zanzare.
Vola piccola stronza. Con quelle ali che ronzano sibilando. Ma piove, la sera fa freddo e la notte arriva presto.
Ma lei esiste, e più cerco di capire questo paradosso e più lei ronza.
Mi desidera. Tutta la sua futile esistenza è compulsivamente incentrata nell'attesa della notte. Nell'attesa di raggiungermi di notte, trovarmi inerme, a lei totalmente disponibile, e di bere il mio sangue.
E' ossessionata dalle mie vene, dalla mia vita.
Millenni di evoluzione genetica l'hanno programmata per desiderarmi stanotte. Sono il suo Dio.
Le do la vita, posso toglierla e sarò impunito. Anzi è socialmente auspicabile che ad un certo punto mi possa venire voglia di liberarmi di lei uccidendola. Terminando la sua esistenza. Ponendo fine al percorso di un essere vivente. Con organi, mobilità, capacità riproduttiva e percezioni.
Si preoccupa di me molto di più di quanto farebbe un cane. Mi chiede un po' di sangue, al prezzo della consapevolezza che lei esiste solo in quanto io lo voglio. Esiste solo perché esisto io.
Non è importante quanto sei amato, è importante la certa consapevolezza che qualcuno dipenda da te, anche in maniera inconsapevole.
Al mondo esistiamo, d'altronde, in funzione della nostra percezione che hanno gli altri di noi. E la nostra felicità è proporzionale a quella che vediamo negli occhi degli altri quando ci guardano.
Ed allora non posso non amarla, magari solo per un secondo, quello prima di ucciderla.




(Martirio di San Sebastiano, olio su tavola (291,5×202,6 cm) di Piero del Pollaiolo, 1475, National Gallery, Londra)
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Perdersi in un bicchiere d’acqua

scritto da Sanfedista il 28 luglio 2010,19:34

Secondo l'Università agli Studi di Mirabilandia:


Il bicchiere d'acqua è il cocktail più famoso del mondo. Tuttavia, se non si possiede sufficientemente esperienza e dimestichezza, il travasamento del liquido e la relativa assimilazione può trasformarsi in un'azione complicata e potenzialmente disastrosa.

La corretta preparazione di un bicchiere d'acqua si compone di due fasi principali, attiva e passiva. Entrambe le fasi sono fondamentali, non è possibile invertirne l'ordine, nè saltare una di queste.
Pena: la disidratazione.

In questa prima parte cercheremo, passettino dopo passettino, di trasferire un po' d'acqua dalla bottiglia all'interno del bicchiere, senza utilizzare gru o altri congegni meccanici, ma solamente le vostre mani!

 

  • Aprite la bottiglia. Se rimane chiusa, è impossibile far uscire del liquido. Per farlo, esercitate una leggera pressione sul tappo onde svitarlo, altrimenti bucate il contenitore.
  • Se la bottiglia si è aperta con successo, possiamo iniziare a versarla. Sollevate il contenitore e inclinatelo di pochi gradi in avanti, verso il bicchiere vuoto. Con immenso stupore, per effetto della legge di Torricelli e della fluidodinamica, noterete che il liquido contenuto nella bottiglia si sposterà da solo dal contenitore al bicchiere. Può sembrare magia, ma questa è scienza.
  • Certo, occorre della buona mira per centrare esattamente il bicchiere! Ma un po' di esperienza vi garantirà la scioltezza dei movimenti.
  • Arrivati a questo punto, occorre dosare le quantità. "In genere", è bene riempire il calice intorno al 70-75%, ma non è un limite tassativo, può variare a seconda delle dimensioni della sete o del bicchiere. L'importante è non superare il 100% del volume, poichè l'acqua, in questo caso, tracimerebbe dalla brocca, combinando un disastro.
  • Non è necessario che calcoliate le percentuali con un dosatore professionale, è sufficiente andare "ad occhio" e soprattutto fermarsi quando il liquido ha già riempito completamente il contenitore!