Un aspro rumore di phon. Un “no” detto e cadenzato allo specchio nemmeno la tua immagine riflessa ti stesse parlando davvero. La prima pillola della giornata prima ancora del sole e poi le altre tre meno tre per sorridere, meno due per ricordarsi come piangere, meno una per dimenticare perchè si piange.
Un aspro rumore di phon e di nuovo è il vapore. Altre tre pillole tre, prima che venga il sole, tre battiti di ciglia tre battiti d’ala di farfalla ed il corpo pesante che schiaccia il letto, magari è la volta giusta per dimenticare tutto e per sempre, adesso mi addormento che ne ho prese sei.
Oggi è (stato) 8 settembre, il nostro 11 settembre. Con vecchia retorica avrebbero detto “data segnata dall’infamia”. Qui mi fermo, sereno comunque nell’aver dato il mio contributo annuale a questa triste rimembranza.
Qualcuno diceva “non abbiamo più 15 anni”. Non ne abbiamo ancora 50 però. E allora siate buoni con me, vi prego di essere un po’ indulgenti se proprio non mi sento ancora pronto per le lenti bifocali. Ci tengo alle mie diottrie così come sono. Meno 5 all’occhio sinistro e meno 5,50 all’occhio destro. Una miopia vigorosa, giovanile, ancora non corrotta e corretta dalla presbiopia. Una miopia conquistata grado per grado, faticosamente. Figlia di una crescita rapida che mi ha portato a superare il metro e ottanta quasi lambendo i dieci centimetri sotto i due metri. Una cattiva vista che certifica la mia teledipendenza degli anni 90. Le mie letture notturne, i miei vacui e interminabili sguardi ad un monitor fisso e bianco poi annerito da parole da rivedere e correggere. Ogni correzione, ogni ricerca sullo schermo notturno mi ha allontanato dai 10 decimi e, sinceramente, in questo modo ogni grado perso è stato ben speso. Qualcuno dalle ultime file potrebbe malignare sugli atti impuri. Anche quelli se avessero contribuito a rafforzare la mia cattiva vista li sfoggerei come cordoni di ordini cavallereschi.
Volevo operarmi con il laser, ma operarsi è come rinnegare gli errori. Gli errori non si rinnegano, gli errori si spendono e ci si compra la conoscenza di nuovi errori. E siate indulgenti con chi cerca di camuffare la miopia con lenti a contatto. Un miope orgoglioso ma che odia gli occhiali e li indossa in particolari occasioni, sempre obbligate o dal caso o dalla necessità.
Vi prego di essere indulgenti con chi ha uno sguardo un po’ appannato sul mondo. Chi crede sia più utile un giardino zen piuttosto che una cabina armadio. Io d’altronde sono pagato per scrivere e chi scrive deve saper vedere da vicino, che da lontano tanto non serve; tanto che per scrivere sarebbe quasi più utile essere ciechi, cioè vedere solo il buio, vedersi solo l’intelletto e immaginare l’ispirazione. Che io ho sempre percepito nera. Una nuvola nera che ti copre lasciandoti sbigottito e incuriosito. Ed io amo lo stupor e la curiositas, fottendomene di Apuleio e della metamorfosi del suo personaggio in asino, proprio per punizione al suo eccessivo interesse alle cose altre da lui.
Se si potesse fumare in bus quanta ispirazione avrei in più. Non mi ridurrei forse a scrivere di notte, comunque in una nuvola di fumo, tra boccate d’ispirazione e diottrie che aumentano alla ricerca del capitolo successivo del libro che porto avanti da anni, metafora troppo semplice di una vita ancora lontana dai 50.
Mia nonna mi ha detto con tono spregiativo “Come sei borghese”. Non nel senso di insulto che fanno i socialisti, ma è un insulto dall’alto. Da parte di una nobile. Ho sorriso, ho fatto due passi indietro mentali ed allora ho riso. Sì sono molto, davvero molto borghese.
Sono in treno, circondato da 3 torinesi. Sulla quarantina. Mi chiedono informazioni sull’orario dell’arrivo a Napoli. Io di solito non do confidenza in treno. E’ la mia ora di silenzio nella settimana. Ogni tanto leggo qualcosa, ogni tanto scorro l’ipad, alle volte lasciandolo sul treno. Ma nell’ora che separa Roma da Napoli rispondo anche malvolentieri al cellulare, rigorosamente impostato su “riunione”. Alle volte non rispondo proprio. Non mi manca nemmeno la sigaretta. Comunque questi tre torinesi visibilmente sovraeccitati attaccano bottone. Ok, il viaggio è compromesso. Sono innamorati di Napoli. La qual cosa mi rende il discorso meno ostile. Vengono ogni tanto per un w/e. A un certo punto mi guardano e mi dicono “Napoli è l’unica città davvero capitale che abbiamo in Italia”. Musica. Sorrido. Eccepisco, senza nemmeno troppa convinzione, che c’è Roma che è splendida – a me piace davvero tra l’altro-. Loro mi rispondono che Roma è troppo ministeriale, troppo bianca, piena di marmi. Sembra di girare per un museo. Napoli no. E’ anarchica, vitale e mortale. Pericolosa e splendida.
Poi si ferma e mi fa’: “Napoli mi sbalordisce sempre, giri per una stradina buia e poi ti spalanca il mare”. Concludendo con una metafora fantastica “Napoli e Roma sono due città bellissime, se fossero due appartamenti però uno sarebbe uno splendido appartamento in centro, curato e con il parqet di pregio, Napoli sarebbe un appartamento immenso, affrescato, un po’ confuso con mobili di stili differenti, antico e misterioso, buio in alcune stanze ma con un meraviglioso terrazzo”. E’ il terrazzo che fa la differenza. Io l’ho sempre detto. Conoscono la storia di Napoli quasi quanto me. Per curiosità gli chiedo delle loro origini, per sapere se ci fossero vincoli sentimentali. Uno è di Alessandria, l’altro di genitori padovani il terzo torinese puro. Sono amici, due insegnano alla facoltà di lettere, l’altro è avvocato. Ed allora capisco che bisogna essere raffinati per amare Napoli.
Il contadino della bassa padana, l’imprenditore varesotto, il palazzinaro romano, o l’impiegato medio italiano, non riusciranno mai ad amarla, perchè Napoli è una città per colti. Per chi ama le differenze e capisce che solo da un po’ di caos nasce lo stupore. Solo lo sbigottimento crea riflessioni. Napoli non è per chi ama Venezia o Gardaland. Non ti tranquillizza ti turba. Non è una città che ti tranquillizza, non è un posticino carino per famiglie. Non ci sono McDonald, forse 2 in tutta la città. Non c’è nulla di uguale in Italia. Non c’è nulla di ordinario a Napoli. Dalla violenza al calore. Dalla irragionevolezza alla filosofia altissima partenopea. E io la amo. Sono grato per essere cresciuto qui. Perchè mi ha insegnato a scrivere, ad amare, a fare 3 passi indietro sempre per guardare le cose da una prospettiva più ampia. Napoli mi ha insegnato che devo guardarmi le spalle quando torno a casa la sera anche se gli occhi volerebbero verso il mare. Da Napoli ho appreso che una fila alla posta non è una perdita di tempo è uno spunto per un racconto o per un’opera teatrale. Che la musica è legata alla vita e la declina in ogni forma. Napoli vive di musica. Penso ci saranno 500/600 neomelodici che producono mille album l’anno e parlano di tutto, dall’amore al tradimento, dai figli al carcere, dalle ingiustizie al matrimonio. Quale altra città in Italia produce così tanta musica. Quale altro popolo italiano è impegnato così trasversalmente nella realizzazione di melodie?
Napoli è capitale. Non so di cosa ma lo è. Abbiamo avuto una corte e circa 10 palazzi reali. Ma la differenza tra Roma e Napoli è che da palazzo Serra di Cassano spuntano in alcuni punti della facciata piante. Palazzo Chigi è candido, costantemente restaurato ma irrimediabilmente morto.
Non sarei quello che sono senza Napoli, quanti possono dire la stessa cosa della propria città?
Sono fortunato a dividere la mia vita tra Napoli e Roma. Spostarmi tra due immensi stereotipi mondialmente noti. Respirandone l’aria, la malinconia, la passione, la storia, che mi insegnano ad amare ogni giorno, ad innamorarmi con tutto me stesso della vita e delle persone.
No, non è un outing. E che Mary Poppins è di fatto l’emblema della razionalità a tutti i costi. Mary Poppins ha un inizio e una fine. Si sa che al prossimo vento dell’est andrà via. Badate, dopo aver incasinato parecchie vite. I bambini sono ora abituati a girare le campagne inglesi su cavalli da giostra parlando con gli animali da cortile. Ma ha incasinato pure la vita di Bert, ovviamente. Bert è un maledetto romantico, decisamente irrazionale, una sorta di Baudelaire per bambini. Innamorato chiaramente di Mary se ne frega di sovvertire l’ordine naturale delle cose. Basti vedere la struggente dichiarazione d’amore che segue in video, a cui la “razionalissima Poppins” cerca di portare tutto a ragione con frasi che sminuiscono la portata delle sue affermazioni. “Via Bert, niente pazzie per favor” oppure “oh andiamo”, “sei proprio svitato”, e giù di lì. Mary non vuole perdere il controllo.
Perchè? Ci ha messo tanto ad essere padrona di se stessa ed ora semplicemente non vuole rinunciarvi? Non vuole rinunciare alla vita come la voleva? Forse semplicemente non gli piace Bert per quel senso di irrazionalità che lo contraddistingue. O forse la vita dai Banks gli piace e non vuole lasciarla per un salto nel buio con uno spazzacamino. Troppe domande a cui solo Mary potrebbe rispondere, ma tanto si sa che tacerà e volerà via. E i bambini cosa imparano? Che Bert è un folle mattacchione inconcludente, senza un lavoro stabile, anzi con un lavoro poco dignitoso come lo spazzacamino? Potreste dire che il film funziona proprio perchè ci sono Mary e Bert, potrei rispondervi di sì ed è forse questa la vera risposta.
E al terzo squillo di tromba il fuoco fu eccitante. Un’unica, completa, erezione nucleare. Gli arcangeli dell’apocalisse si manifestavano ballerini. “E’ arrivato il circo in città” urlavano le voci.
Tutti posti di terza fila vista lampi, fiamme ed un ardore insopportabile. Un ardore umido tipico del secondo prima dello scroscio agostano. Quando si aprono le dighe dal cielo superiore e la potenza si manifesta inequivocabile. Piccoli lampi, incerti, già baluginavano da ore all’orizzonte con una perfezione simmetrica naturale. Lucrezio irride Kant.
Frustrazioni etiliche osannavano al cielo e gli altari dell’uomo erano tavolacci con bottiglie di vino di capienza immisurabile. “Avrebbero potuto dissetare un intero treno”. Crepe già traballavano le sedie; una con una gamba in bilico sul buio nulla fremeva, scoppiettando come canapi bagnati e tesissimi.
Il mare denso come i tuoi capelli affogava su se stesso. L’epiglottide dei fondali, serrata, impediva alle onde ogni movimento. Il mare aveva perso il senso di libertà per cui era stato riempito. Un sole giallo stampato su un telone su cui si scontravano gli ultimi esploratori come mosconi su un vetro. Ma senza il caratteristico ticchettio.
E dalle ferite grandinava sangue, sangue di pensieri già pensati e ripensati, raggrumati in obblighi e direttive imprescindibili, im-mo-di-fi-ca-bi-li. “Se il destino trionfa l’uomo è schiavo”.
La velocità sopravvive e investe tutto in urto. Il vento. Il vento si manifestava solo come forza dinamica, violenta, che ti schiaffeggia i polmoni atrofizzati. Tessuti oramai meccanici, privati dalla funzione romantica del soffio della bolla di sapone.
Le mani non affondavano più nella sabbia calda della spiaggia di giugno, che con un solo piccolo gesto un brivido di calore ti cinge materno. Delle mani nella sabbia restavano solo i granelli sotto le unghie.
“E’ arrivato il circo in città”, a squarciagola urlava un bambino. Tutto si placò. E fu solo amore. Di nuovo amore.
L’albero esplose. Lo videro fin giù alla contea di Redis. Pezzi di glicine, passiflora e sicomoro ovunque.
Il vecchio beota, Carl, strattonò la moglie, intenta a leggera la “pseudomonarchia dei demoni di Weyer” mentre friggeva scorfani sulla piastra, lei si girò a guardare il lampo accecante dell’albero e rigirò subito dopo uno scorfano.
Radrovitz, il postino ubriacone, quasi cadde dalla bicicletta, stava consegnando un figlio alla vedova Dillinger, quando fu colpito dalla tremenda onda d’urto dell’albero. La vedova Dillinger dal canto suo era bloccata da circa 4 ore nell’ascensore di casa sua. Un villino a basso impatto ambientale costituito di un solo piano, edificato con i soldi ricavati dai sequestri di persona del marito, il fu Houdinì Thomas Dillinger. Medico per vocazione, anatomopatologo, e rapitore amatoriale, sia nel senso di principiante sia nel senso di stupratore di rapite. Ma lei lo amava.
Cristobal, di padre fiammingo e di madre lettone di Vibo (questo il soprannome della mamma in paese a causa della sua preferenza per il talamo) riparava sul tetto l’antenna. Lo scoppio sintonizzò all’istante tutti i canali, in qualità del segnale 10, meno che tele Padre Pio con la diretta dalla bara del Santo che era in qualità 9. Sarebbe risalito sul tetto il giorno dopo per rimodulare tutto daccapo, rischiando di non vedere più nulla.
Cassio l’orologiaio, vedendo dal suo negozio tutto quel fogliame, esclamò che si trattava dei tedeschi. L’amico Agostino lo tranquillizzò dicendo che i tedeschi erano usi far esplodere tè verde. Ripresero entrambi a riparare la pendola del dott. Calvo. Il dottore era effettivamente calvo.
Il barbiere ripuliva con una scopa il salone. La vetrata infranta dallo scoppio fece saettare vetri ovunque. Fu colpito da una dozzina di essi. Di colori blu, bianchi e rossi. Spirò serenamente come sempre aveva sognato. Il testamento fu immediatamente impugnato dal figlio legittimo, Facondo, il fratello germano del barbiere si oppose ma non vi fu mezzo. E mentre le foglie ancora non avevano smesso di cadere ovunque, Facondo già guidava garrulo la A112 Abarth del padre, come aveva promesso alla fidanzata tanti anni prima.
Clelia, sentito lo scoppio, diede licenza alla cameriera ed abbracciò il suo cane, Maxwell, che la morse. La cameriera, sull’uscio della stanza, spaventata dal boato e dal cane prese le sue cose e accelerò il passo.
In sacrestia padre Giorgio sentì le campane ondulare, pensò all’apocalisse e ne fu sollevato. Isaac il rabbino aveva perso la scommessa e gli doveva 10 pezzi da 8. Isaac il rabbino sentendo anch’egli il frastuono temette nell’apocalisse e inserendosi una matita nel naso diede un colpo secco col volto sul tavolo. La matita penetrò nel cervello senza grossi problemi. Sangue ovunque e via.
Rico mungeva la mucca che da quel giorno non diede più latte. Per un’antica promessa alla fidanzata morta in guerra non uccise la bestia e continuò a vivere astenendosi dai vizi della carne.
Salamandros, il pittore del paese, diede nell’attimo esatto del fragore l’ultimo colpo di pennello della sua vita.
La pattuglia di polizia si vide piombare sulla strada un pezzo di radice – che cadendo aveva denudato la più bella del paese, Isotta, che ora era seduta sconsolata sul ciglio del viale – e si era incastonata nella strada creando una strana forma fallica, indecente. Sopra l’abominevole, quanto casuale, scultura era incastrata la perpetua Giovanna, che rapita dal volo del tronco, ciondolava in uno stato di incoscienza e senza dentiera esclamava bestemmie e oscenità da taverna del porto. In men che non si dica i poliziotti transennarono tutto e dicevano ai passanti che non c’era nulla da guardare. I passanti rispondevano: “il cazzo non c’è nulla da guardare”.
Le nuvole come batuffoli di ovatta su un cielo azzurrissimo e soleggiato, contemplavano Ronnie, il lavavetri. Che per solidarietà all’albero si fece saltare in aria. Sporcando tutte le macchine. Redento, il commercialista, si arrabbio in pochi secondi per ben tre volte con Ronnie. Nell’ordine: perchè gli aveva pulito il vetro, perchè gli aveva sporcato il vetro con pezzi di milza e perchè non poteva più pulirgli il vetro. Redento guidava quel giorno un automobile di tipo cabriolet, con capotte abbassata.
Tamericio non si accorse assolutamente di nulla. Era infatti morto il giorno prima.
Il sindaco al suo terzo mandato era in campagna elettorale. Proclamò in un istante il lutto cittadino e chiese fondi a Legambiente. Legambiente faxò che gli alberi secondo recenti studi non erano propriamente dei vegetali. Bleffarono clamorosamente. Ma la risposta soddisfò maggioranza e opposizione, si decise allora di alzare di un millesimo di pezzo da otto la benzina. Perlomeno per pagare chi ripulisse il casino.
Timoty, Ric e Dalton erano alle prese con i preparativi della festa di Leila. Timoty ribadì sul fatto che non si organizza una festa di lunedì, perchè la gente lavora. Avevano finalmente un pretesto per smettere con i preparativi. Leila pianse tutta la notte, anche perchè amava Ronnie.
L’erpetologo del paese, Goia, quella mattina era per funghi. Nel walkmann di marca Sony sentiva la cassetta dei Talking Heads. Fu una mattinata clamorosa, un chilo circa di porcini. Nuovo record stagionale. La canzone Psyco Killer, unita alla sua totale incapacità di distinguere i funghi, gli fece sembrare l’esplosione dell’albero di una bellezza psichedelica. Sentì i colori ma non i dolori. Prognosi riservata. C’è chi dice che se la caverà.
Alabtros, detto Alzheimer, stava tornando dal calcetto, trovandosi oltre la collina dal lato non interessato dall’esplosione vide solo cadere lentamente foglie, in maniera sospesa. Ne raccolse una manciata.
Vicky e Ramon lo stavano facendo per la prima volta. Ramon era alle prese con due piccoli drammi, il reggiseno di Vicky e il preservativo. L’esplosione lo salvò dalla figuraccia. Accorse alla finestra e si accese una sigaretta post coito, perchè già in precedenza venuto all’insaputa di tutti.
Sveva stava aprendo nell’istante del botto una confezione di Somatoline. Usava assumerla per via endoteliale per vincere la cellulite. Battaglia persa da sempre. La cellulite non si combatte certamente sposando un uomo mediocre che non potrà mai pagarti una liposcultura. Il marito di Sveva era dipendente con contratto di consulenza alla Banca Centrale dei Quattro Cantoni Svizzeri, Unica Sede, con il bancomat in riparazione. Il marito di Sveva, tra l’altro era anche povero di famiglia e in quell’istante pensando dall’ufficio che fosse successo qualcosa alla moglie, pianse e ricordò i consigli, inascoltati, del padre, “che era meglio che ti imparavi un mestiere al posto che studiare fuori, che magari con un impiego alle poste a tua moglie ce lo pagavi il chirurgo, ora guarda che cesso che è, solo per colpa tua”.
Roll, l’illusionista, semplicemente sparì urlando “puff”. Il nano Rosco (da leggersi Rosko) iniziò a saltellare come un forsennato. Mezzo truccato e mezzo no, nella sua tutina sgargiante fucsia, fu il primo a soccorrere l’equilibrista caduto. Si sa che quando cade l’acrobata entrano in scena i nani. Questo non dimenticatelo mai e ricordatevene sempre nella vita.
Gaetano guardò l’esplosione direttamente, stava infatti osservando il nido di un fenicottero rosa sull’albero. Dissipata la nube di fumo marrone della corteccia, non rimase più nulla – nemmeno un piccolo insetto di marca Punteruolo Rosa -con suo sommo sbigottimento. Sorrise e si disse “guarda te la natura”. Mise un piede dopo l’altro e andò via fumando.
Se stai pensando di chiedere informazioni a un fantasma, assicurati di sapere come mandarlo via quando avrai finito di spremerlo. Se stai considerando di fare un viaggio nel passato alla ricerca di conforto o ispirazione, semina briciole sul tuo cammino in modo da poter trovare la strada per tornare al presente quando sarà il momento. Hai capito cosa voglio dire? Attingere ai vecchi tempi e ai vecchi modi va benissimo, ma cerca di non perderti e di non restarci impigliato.
Tobruk, Bengasi, Misurata…quanti docili ricordi.
E il mio pensiero ritorna a quei giorni di colonizzazione, in cui progetti, visioni, gerarchie e ranghi erano ben definiti.
Noi, italiani, e loro, i libici.
Docili, felici, pronti. Si migrava noi, si andavano a piantare vigne, uliveti, frutta. Del petrolio ce ne fregava, perchè noi siamo italiani e il petrolio non è per noi una priorità. Famosa a Tripoli era la "Ditta Baldrini" fabbrica liutaia. Facevamo chitarre, cembali, mandolini. Si giravano pellicole e si correvano gran premi, quello di Tripoli, corso fino al 1940, il più celebre, vi vinsero Varzi, Nuvolari e il nazistissimo Hermann Lang, croce di ferro, che con la Mercedes-Benz W25 trionfò nel '37, '38, '39, per poi lasciare il gradino più alto del podio a Farina.
Ora la guardiamo spaccata e ci siamo fatti umiliare dal colonnello.
Solo un po'di orgoglio, solo un granellino. Schieriamo navi, sganciamo bombe, facciamo qualcosa ma facciamolo.
Andiamo a riprenderci Tripoli e con essa Nuvolari, le case bianche coloniche, il Cinema Italia a piazza Balbo – quadrumviro della rivoluzione – le sigarette Giuba, in originale Giubek ma italianizzate nel 1936 dal Minculpop.
I pati delle ville della nuova borghesia coloniale e le feste in tema aFFricano con piume, struzzi e datteri, con signori in giacche da fumo bianche.
La camionabile balbia e il bel suol d'amore…
Riprendiamoci l'ingenuità, la violenza e la sopraffazione ingenua. Restituiamo twitter, facebook e il tutto così uguale, il politicamente corretto e i gay dichiarati in parlamento. Rivoglio il pudore delle colonie e le lettere di referenza prima di assumere una cameriera. I profumi orientali, i saponi lux e la brillantina.
L'orbace, il Governatore d'Italia per le colonie e l'annesso ministero.
Affondiamo i barconi e riprendiamoci la Libia, il nostro scatolone di sabbia, il petrolio lasciamolo agli altri, abbiamo la sabbia, che con un po'd'acqua ci fai i castelli o ci scavi una buca ci metti un foglio di giornale sopra e la ricopri un po', giusto in tempo per l'arrivo del vecchio zio, che immancabilmente con il suo pizzetto alla Graziani ci cadrà dentro, e tutta la famiglia a ridere, che tanto stava sulle palle a tutti. Anche se la punizione arriverà lo stesso, perchè così deve essere, perchè così si crescono i figli, perchè così sta bene.
Cinico Giurista e Critico Letterario su un quotidiano. Felice guidatore di una automobile cabriolet, amante del teatro e del cinema, di Gozzano e Marinetti. Amante di Se stesso. Informatore sofisticato per lettori privilegiati.
odi et amo
Odio : La volgarità
Amo : Sigarette francesi, gauloises.
Accendere le stesse con un accendino di metallo o con un fiammifero, adoro il rumore del fiammifero e il suo profumo.
Salmone scozzese, lo preferisco molto al norvegese.
Whiskey irlandese di marca Jameson.
Sigari di dimensioni “petit corona” marca Montecristo.
Ascoltare musica brasiliana.
Luci soffuse e penombra per riflettere di sera.
Non abbassare mai le persiane andando a dormire, amo risvegliarmi col sole.
Collezionare piccole cose di cattivo gusto, trarne la bellezza.
La velocità, le automobili inglesi, o le classiche sportive italiane, comunque automobili che mi diano risposta pronta nel momento in cui pigio l’acceleratore.
Sentire vecchie canzoni italiane e i Queen.
Amo anche la musica trash.
Indossare la cravatta, il cappotto lungo o un pullover a collo alto.
Amo l’inverno, ma da un po’ sto iniziando ad apprezzare anche l’estate.
Amo le suonerie dei cellulari tradizionali.
Guanti di nappa nera, con cachemire all’interno.
Ascoltare musica in auto e viaggiare di notte.
Un buon vino rosso siciliano.
Il panettone con l’uvetta e senza canditi.
Mi piace riflettere e osservare gli uomini.
Amo le donne che parlano a bassa voce.
Amo le donne che hanno qualcosa da dire.
Il sassofono ed il piano sono i miei strumenti preferiti, mi piace Chopin.
Non credo nella democrazia.
Amo il decadentismo e il futurismo.
Amo essere confuso.
Preferisco i soggetti alle nature morte.
Il latte intero.
L’acqua e le fontane.
Bere alle fontanelle.
Leggere giornali non schierati politicamente.
le persone dolci e propense all’ascoltare.
Il gelato al pistacchio della gelateria “Otranto”.
Il motorino in città, anche con la pioggia.
La pioggia.
Le parole francesi, tipo “boudoir”.
David Lynch, Kubrick.
Un buon film al cinema.
La parmigiana di melanzane.
Le ostriche al “grand caffe le cappucin”a Parigi.
Il lenzuolo nuovo dopo la doccia.
I massaggi.
Il papillon ben annodato alla prima del S.Carlo.
Affondare i piedi nella sabbia tiepida.
Una doccia dopo il mare.
Le persone che ti guardano negli occhi quando ti parlano.
Muovere la mano in maniera mai brusca.
Andare a letto quando tutti sono gia a letto.
Fare scali tecnici mentre si vola.
Affondare nelle poltrone della buisness class.
Lo skyline di Pudong visto dal bund di Shanghai.
Las Vegas a mezzanotte mentre la fontana del Bellagio esplode con la musica di Gene Kelly.
Il caldo secco della Savana in Tanzania, la polvere che ti sporca e la piscina del Plantation Lodge che ti aspetta a mezz'ora di Jeep.
Concedersi un riposino pomeridiano estivo in Hyde Park a Londra.
Il cielo della Scozia sempre così imprevedibile.
Un tramonto su ponte Carlo a Praga.
Il corno d'oro di Istanbul, all'alba alle 6.00, ma visto dal mare.
Amsterdam e la sua leggerezza, Barcellona e la sua lievezza.
Il suk di Marrakech, dove sei sicuro di aver fatto l'affare della tua vita ma poi vai in Tunisia e ti senti un idiota, arrivi in Egitto e pensi che non ti è andata poi così male.
Il Sahara, maledetto...
Il golfo di Napoli al tramonto, così conosciuto ma così tremendamente inatteso.
Un’uscita in barca nell’Auraki Goulf ad Auckland in Nuova Zelanda.
Aggiustare i capelli sopra l’orecchio alla ragazza a cui voglio bene.
Un bicchiere di mirto sul balcone quando tira vento e il tempo minaccia pioggia.
Un cappello a falde larghe.
La camicia sempre e comunque, anche sul costume da bagno, bianca, azzurra oppure a righine. D'obbligo le iniziali.
La mia coscienza : Fiera
La mia sorte : comunque certa