gli atteggiamenti che possono essere riassunti in questa proposizione: X spara e il mondo impara, mi danno sempre di più fastidio; come odio l’idea della scontatezza delle azioni, la mancanza di gentilezza, poi, diviene intollerabile se è corollario del resto.
Io sapevo che il martire è colui che sacrifica la propria vita per una causa meritevole e massimamente condivisa.
Pensando alla frase e collegandola allo scrittore d’inchiesta (sic) Roberto Saviano, i conti non mi tornano. Eppure l’ho riletta, ma c’è qualcosa che non gira nel paragone. All’inizio pensavo si trattasse della "causa meritevole", ma poi no, la causa meritevole ci sarebbe pure: chi potrebbe mai opinare che la produzione di un bestseller non è causa meritevole? Poi ho pensavo alla "condivisione", pure quello ci sta: effettivamente il moderno bardo delle malefatte camorristiche ha portato avanti un’opera didascalica; ha fatto conoscere al resto del mondo come si vive in alcuni lembi ai confini dell’impero.
Non mi sono dato per vinto. L’ho trovata: la cosa che stride tra la definizione di martirio e Saviano è il fatto che il secondo è ancora in vita.
Sì: vita era la parola che m’ingarbugliava la mente. Perchè, diciamocelo, per essere martire devi essere morto; è una imprescindibile condicio sine qua non.
Poco male: la camorra, i clan, vogliono ora rimediare e dare a tutti noi la soddisfazione di un nuovo martire. Continuando, diceva qualcuno: meglio un coglione vivo che un martire morto. Non fa per me, i coglioni sono due, due sono quelli utili, gli altri sono in esubero. I martiri servono vivi, lo so non sarebbero più martiri, ma a chi importa?
Saviano con la sua opera, mal scritta e mal romanzata da atti processuali, ha però compiuto un altissimo servigio alla Nazione: ha dato una faccia a chi combatte la camorra, ha creato un’icona, un Falcone, un Che Guevara, un personaggio con cui identificarsi quando la morsa è stretta.
Non penso che il romanzo Gomorra sia un’opera letterariamente pregevole, anzi credo sia un’operazione del peggior marketing alla "cavalchiamo la tigre", ma nemmeno il Mein Kampf era scritto bene o proponeva nuove soluzioni eppure quante coscienze ha smosso.
Gomorra è un catalizzatore di speranza, è il volto ad un sentimento, un riflettore acceso nel buio della notte.
Saviano con la sua creatura è riuscito a porre una bandiera alla quale rivolgersi. Non rileva se scrive bene, se le cose che dice sono esatte, ci interessa che sia riuscito a creare una figura da contrapporre all’eroe cattivo. Proprio come Falcone e Borsellino, e non importa che i due magistrati lottavano attivamente e con successo, importa che erano divenuti un simbolo, come Saviano.
I tempi che corrono sono quelli che sono. Non vedo Maradona, non vedo Fellini, non vedo Picasso e non vedo Kennedy ma non vedo neppure Montale, e allora teniamoci stretti le nostre stelle polari di serie B. Perchè se di mediocrità bisogna vivere che si viva di suprema mediocrità, se a Marlon Brando si sono sostituiti i tronisti ben venga che a Borsellino si sostituisca Saviano. Ben venga che ci sia ancora qualcuno che porti la tiara del martire, di poliesteri magari ma quanto ne abbiamo bisogno…
oops forse è più indicato questo…
"I repubblichini stavano dalla parte sbagliata". G.Fini.
Apro le pagine gialle, cerco alla voce "onoranze funebri", prendo un indirizzo. Scendo prendo l’auto e vado in sede. Il titolare mi sembra persona cordiale, vado dritto al punto. Il catalogo delle lapidi è ampio, da quella classica in pietra tipo marmo a quella in marmo con venature nere ed incisioni in oro zecchino con due fioriere in bronzo, lumini e scultura di angelo ferito.
Decido per una sobria lapide in marmo bianco con incisoni in piombo, scrivo su di un pezzo di carta il nome e le date, firmo 3 moduli (vogliono tutelarsi da eventuali errori di battitura) e pago 595 euro. Mi dice di ripassare nel pomeriggio.
Alle 18 torno, ho indossato un abito scuro per l’occasione, mi fa vedere il lavoro; davvero ben eseguito:
GIANFRANCO FINI:
"uomo che per sete, annegò il suo passato in un presente ammalato".
Mai più un voto.
Siamo sempre più costretti a commettere errori, eppure finiremo per non renderci nemmeno più conto di quanto avranno pesato.
Non perdoniamo più, perchè non crediamo più al pentimento delle persone. Non valutiamo più che la vita a noi conosciuta è una soltanto e quindi perdiamo tempo in strategie inutili e in valutazioni prive di logica. Non c’è più il coraggio di comprendere, non è autodifesa è solo mancanza di voglia.
Si crede sempre più ostinatamente che la gente semplicemente non cambi, ed invece ognuno di noi sa che nel corso della sua esistenza è cambiato più di una volta.
Tutto deve essere adatto a noi, tutto deve essere di immediata comprensione. Non osiamo, non crediamo più nemmeno in noi, nella nostra capacità di limare gli angoli di volere davvero qualcosa che sembra proibitiva.
Le delusioni per gli insuccessi generano in noi rabbia e non tolleranza.
E’ facilissimo dare una seconda opportunità, noi non diamo più la terza. Siamo sempre più legati a schemi, a quello che il mondo ha già metabolizzato per noi.
E’ una chiamata alle armi, è una chiamata per chi pensa che la vita sia ancora una fortuita occasione di condivisione.
Ed io se avessi perdonato meno, se fossi stato più rigido avrei forse meno patito, ma avrei meno compreso, scoperto.
Io ho perdonato e cogliere nelle lievi palpitazioni di chi si perdona la gratitudine per la profonda comprensione, è stato il motivo per cui ho continuato ad amare anche chi aveva sbagliato.
L’errore è la scoperta di un modo in cui non si fanno le cose.
"Se tu potessi perdonarmi scopriresti che la gratitudine che proverei sarebbe il più puro tra i motivi per amarti fino alla fine dei miei giorni, perchè saprei di amare chi mi ha davvero capito."
Emile Wauters: The Madness of Hugo van der Goes, 1872. Royal Museums of Fine Arts, Brussels
Il termine resistenza mi ha sempre molto affascinato. Il suo significato ha espanso la sua forma fino a raggiungere le feste.
In questi giorni fatti di piccoli lussi concessi, di albe vigorosamente raggiunte, di insalubri consumazioni, l’umana specie mi è apparsa resistente alla festa. I miei simili nella quotidianità festiva mi rimandavano all’immagine di garruli studentelli, costretti, ad una mostra di Hugo Van der Goes (per gli incliti: pittore fiammingo; "inclito": colto. L’autore ha utilizzato l’aggettivo chiaramente in forma sarcastica).
Naturalismo applicato a visioni fantastiche ed inqueitanti; questa che potrebbe essere una ottima definizione di taluna pittura fiamminga trova una perfetta adesione alle immagini che ho notato tra le stade.
Esseri umani (anche qui sarcasmo), mugolanti, zoppicavano per le vie fatte fiume. Le vesti, ricovero per il sudore; le mani, invase da pacchi con prodotti la cui scadenza era suparata solamente dall’intrinseco cattivo gusto; gli sguardi, da forzati del riposo, da resistenti alle feste. Un truce carnaio di dannati; una cortina difesa da partigiani, da soldati che non accettano di soccombere alla festa.
Una piccola guerra per gli altri, una linea che unisce due punti per me; non che consideri la festa pari alla giornata comune, ma cerco di ricoverarmi nell’unico privilegio che il riposo concede: il tempo. Vivo il trascorrere del periodo come una diritta linea sulla quale ci si possa adagiare, come un segmento che collega due periodi e che cela nell’infinità dei punti da cui è formato un invincibile segreto che non mi interessa svelare, ma di cui ho certezza dell’esistenza.
L’arte del resistere è fatta di lentezza di cinismo e di purissimo egoismo, di cappotti a doppio bottone e di sguardo finemente altezzoso. L’arte del resistere è tramutare l’ansia in docile pensiero con la forza del tempo.
L’arte del resistere è dichiarare la resa incondizionata per la propria superiorità schiacciante. Ci si arrende per vincere, per sorridere del gli altri e fare un piccolo passo indietro.
Un quadro di Van der Goes si comprende ad una prossimità di un metro, si ama facendo tre passi indietro…
…avrei scritto di altro oggi, avevo tutto pronto, ben organizzato nella mia mente; rimandato, parliamo della viltà e del Coraggio…
E’ morto un sottufficiale Italiano, ammazzato da un uomo bomba.
Coraggio e vigliaccheria li avete già attribuiti, avete letto tre righi e chiaro si è già definito chi sia il vile e chi il coraggioso.
Lo stigmatizzo però. Non voglio essere retorico, il risorgimento è finito, sono freddamente realista. Un uomo, un vile, ha deciso che il miglior modo per combattere una guerra sia quella di ammazzare più persone possibili, prevalentemente inermi, all’innaugurazione di un ponte. Un ponte, quello che da sempre è sinonimo di pace e fratellanza, bambini morti, sei, la speranza. E’ ancora più chiaro, ora, chi sia il vile; scopriremo, però, nel corso della giornata che la viltà bagna anche altri, qui in Italia.
Farsi saltare in aria, continuando, è eroico o criminale, dipende dagli obiettivi, se avesse colpito una colonna di blindati avrei potuto forse capire, i civili no, mi dispiace non c’è, per me, maggior tormento. Apro un inciso, in genere non amo chi al posto di combattere faccia a faccia si uccide per colpire, ma è una visione personale che può non essere condivisa.
Il coraggio è del Maresciallo, aveva capito quello che stava per succedere, riusulta dai testimoni, e cosa ha fatto? Non si è nascosto sotto un carro; non si è buttato a terra; ha accettato un rischio, quello supremo, lo ha fatto ed è morto per altri. E’ un militare, lo aveva messo in conto ed era evidentemente stato ben addestrato, perchè ha fatto quello che si richiede ad un soldato, difendere l’obiettivo a costo della vita. Non ci ha pensato su due volte; l’ordine era difendere la popolazione da eventuali attacchi; testa bassa, un bacio alla Signora, un urlo in gola forse, un ultimo pensiero agli amori ed è morto così, con l’orgoglio di onorare fino in fondo una scelta, una promessa fatta al Tricolore.
Può sembrare retorico, forse lo è, ma non ci riuscivo, dovevo dirlo e sono stato in grado di dirlo così. Ora crocefiggetemi per questo.
Andiamo avanti, altri vigliacchi.
Ho letto il commento dell’uomo che voleva Lenin in Italia: "Via dall’Afganistan". Vorrei averlo qui, gli chiederei alcune cose, non lo ho, le chiedo allora a voi: le forze armate dove dovrebbero essere impiegate? Al picchetto d’onore alla salma di Togliatti? Alla costruzione di campi profughi? -lo fanno- Dovrebbero forse essere forze disarmate? Colpirebbero gli attentatori con cosa? Il libretto rosso di Mao magari, ma sopratutto, (questa è la domanda) cosa c’è di più pacifico che morire per salvare la vita di inermi bambini?Mi risponda, La prego, rispondetemi.
"Via dall’Afganistan", non riesco proprio a mandare giù questa frase, non oggi, non dopo che un altro soldato è morto in Afganistan, sarebbe tradirlo, sarebbe dirgli "Maresciallo la tua morte è stata inutile, quello per cui sei morto non merità più di essere combattuto". Potrebbero dirmi la sua morte potrebbe servire a far ritirare gli altri ed a salvare altre vite. Mi dispiace signori, non è così, era un soldato, come lui gli altri; loro lo mettono in conto di morire dal momento in cui prendono le stellette, è la loro scelta e va rispettata, onorata.
Tornare indietro, parlane oggi, è da vigliacchi è da iene, da chi evidentemente non ha cari i giuramenti, da chi pretende di scegliere anche per i morti, magari seduto ad un banco ad incassare quello che un maresciallo non vedrà mai.
Coraggioso Daniele Palladini, che la terra ti sia lieve.