Frase del Giorno
Ma cu sti mode, oje Bríggeta,
tazza ‘e café parite:sotto tenite ‘o zzuccaro,
e ‘ncoppa, amara site…ma tanto ch’aggi”a vutà..
.Ma i’ tanto ch’aggi”a girá,ca ‘o ddoce ‘e sott”a tazza,
fin’a ‘mmocca mm’ha da arrivá!…
Ma cu sti mode, oje Bríggeta,
tazza ‘e café parite:sotto tenite ‘o zzuccaro,
e ‘ncoppa, amara site…ma tanto ch’aggi”a vutà..
.Ma i’ tanto ch’aggi”a girá,ca ‘o ddoce ‘e sott”a tazza,
fin’a ‘mmocca mm’ha da arrivá!…
Ubi leonis pellis deficit, vulpina induenda est
Quando manca la pelle del leone, bisogna indossare quella della volpe.
(Fedro)
ogni tanto provo a illuminare il buio della grotta
cadenzo la torcia, accesa/spenta, accesa/spenta
ad immitar l’sos che vidi una volta in un film di guerra.
Sono qui con l’estremo della corda in mano, il mio estremo
e di tanto in tanto lancio un urlo dentro
nulla; ribolle solo il vento che inarca la spelonca.
Comincia a piovere ed io fuori strattono un po’ la fune,
impaziente, che di te non ho più senso
la mia Arianna. Non ricordo nemmeno quando entrasti,
se era giorno, notte, estate o inverno, forse autunno.
ma mi dicesti tieni stretto questo, è il filo, il nostro.
Ed io con il filo in mano temo sempre di più sia solo mio
ma non lo lascio e vado via, fosse anche che aspetto solo buio
che da dentro non esce.
e tu magari sei sbucata all’altro capo abbandonando il cavo
ti sei gettata nella primavera. Oppure no e già da ora stai invertendo il passo.
Io non lo so e nel dubbio, che è la ragione nella speranza, continuo fermo
e, intanto, mi riparo dalla pioggia.
“Penitenziagite” solevi ripetere.
Sgorgante giallo dal cranio
il pensiero che s’alterna al silenzio.
Rumore pensato, in strisce affettato,
lo usasti per foderarci la stanza,
…col pensiero…che uso bizzarro.
Potevi ben stenderlo come tappeto in navata
L’Ave Maria, la grassa cantante,
che rompe di nuovo il pensiero, sudata.
“Penitenziagite” solevi ripetere.
Eppure a ripensarci, lo schiocco del fustigo non ti piaceva affatto
e il nerbo lo scartavi anche dal filetto
e quante storie, quanto il filo retto
ti piaceva tracciare. Da un lato e dall’altro.
“In mezzo non c’è niente!”
E se io in medio andavo a cercare, lo sciagurato ero io
che trovavo, non tu che seguitavi a celare.
Tant’è che quando scovavo, dicevi “no, no era altro, non questo”.
“Penitenziagite” solevi ripetere
Sgorgante giallo dal cranio
il pensiero. Ancora una volta
credevi di incidere su un lato di marmo
scrivevi in realtà su vetro appannato
che pure allagando di nuovo il mio bagno
non emerge dallo specchio altro che il mio volto offuscato
incorniciato, come sempre da una tua scritta che proprio non leggo.
Senza altro da raccontare chiuse gli occhi e si lanciò nel buio, da quel momento il destino fu solo un ricordo, un ricordo che tutto annulla e che si annulla esso stesso in una vecchia reminiscenza, in un amico intravisto in una folla dopo tanti anni e solo per qualche secondo, prima che un bivio lo riporti nuovamente lontano.
Ti giuro che…
Anzi guarda sai cosa? Ti garantisco che…
No guarda forse è meglio, ti assicuro che…
Guarda hai la mia parola: è un mio pensiero…cioè diciamo che tendenzialmente, dovrei, cioè credo potrei. Magari se ho tempo. Forse al massimo, se non ho altro da fare. Io credo di no però non è detto.
Così trascorre il tempo nel nostro cervello, l’orologio è per l’eterno, le batterie no.
Si pensava a quanto sia alla fine felice una serena decrescita. Un rinunciare un po’ per avere molto di più. Questi giorni di vacanza li ho trascorsi in montagna. Ho conosciuto un mio coetaneo. Laureato in agraria, fa l’apicultore. Mi raccontava che la sua ultima memoria di stress risaliva all’università. Ora non ne ha più. Si sveglia la mattina percorre 4/5 km e raggiunge le sue api. Ripara le arnie, raccoglie propoli, miele e polline. Mi diceva che torna la sera a casa stanco. Ma stanco fisicamente. Ed è contento. E io penso che noi abbiamo forse perso molto di quello che ci rende felici. Il beagle, il cane, è selezionato per la caccia alla volpe. Un mio amico ne prese uno. Dopo poco gli distrusse casa, rosicchiando i mobili, i divani, le tende e le poltrone. Non era colpa del cane. Semplicemente il beagle deve cacciare di tanto in tanto una volpe. Non essendoci volpi ne brughiere su cui correre, si sfogava così.
Noi siamo ora oggetti che rispondono ad esigenze. I professionisti, chi lavora in azienda, chi lavora con il “cervello” deve rispondere a un bisogno, a una sollecitazione, nel minor tempo possibile. Mettendo a fuoco solo un problema specifico e dando la migliore soluzione per esso. Il nostro cono visivo è drammaticamente limitato. Ridottissimo. Ci concentriamo solo su una minima problematica specificando il nostro sforzo a una piccola porzione. A domanda rispondiamo, siamo recettivi (o proattivi come ama dire qualcuno come vanto) e basta. Corriamo per arrivare dove? Col nostro lavoro ci circondiamo di oggetti inutili. La mia camera è un monumento alla inutilità, ho accumulato suppellettili e beni di cui obiettivamente non mi giovo se non nel compiacimento di averli. Poca roba davvero.
Anche la speculazione in questo momento si è fatta strana. Non ragioniamo più liberamente sui massimi sistemi. Non riflettiamo più sull’ampio, su ciò in cui siamo immersi. Noi siamo così introflessi che le volte in cui ragioniamo, le volte in cui ci fermiamo a riflettere lo facciamo su noi stessi. Questo 9 su 10 finisce irrimediabilmente per cagionarci ansia. Oggi quando ci fermiamo a riflettere, finiamo solo per acuire la nostra ansia, il nostro malessere. Perchè amplifichiamo smodatamente il nostro io, che in qualche modo non ci piacerà e quindi usciremo dalla riflessione più stanchi e tristi. Eviteremo allora al massimo di riflettere. Tutto ciò accade perchè non guardiamo oltre nelle nostre elucubrazioni. Nessuno si concentra più sulla bellezza del creato, sull’armonia delle forme. Sulla singola goccia di pioggia oltre la sua fisicità atmosferica. Chi pensa alla perfezione e all’equilibrio che ci sono nel mondo. Finiamo per catalogarle rapidamente come “robe hippy o new age” ed invece sarebbero proprio quelli i pensieri che potrebbero farci risintonizzare. Aprire una finestra e guardarci fuori è sempre meglio che esplorare una cantina.
Corro con la mente verso il Nanga Parabat, il
Karakorum, l’Annapurna…alla ricerca del gelo, del
ghiaccio asettico, benefico. Del bianco abbagliante
come Rod Stewart che mi sveglia stamattina. Slitte e
licheni, la mia idea di estate.
E’ capitato a tutti di fissare la collina con l’albero sulla sommità. E’ una delle immagini più diffuse tra gli oculisti. Quando fai la visita te la fanno fissare. Ti dicono “fissi per qualche secondo l’albero. Perfetto grazie mille”. Io quando fisso quell’albero penso sempre che mi piacerebbe esserci sotto. Appoggiato con un po’ di vento che mi lambisce la nuca. E’ un pensiero incatenato. Ovvero tutte le volte che vado dall’oculista mi dico “anche stavolta penserò al fatto che mi piacerebbe stare sotto quell’albero”. Ovviamente appena compare la foto diventa impossibile pensare ad altro.
Sarà che tutti quanti noi siamo ormai privi non solo di solide prospettive economiche, ma anche di prospettive morali (ci hanno distrutto la fede) e politiche (hanno affossato gli ideali). Ci hanno lasciati in un momento di merda nudi e privi anche del trascendente, del superiore che salvava quelli di prima cidel rivoluzionario, quindi praticamente fottuti. Sarà tutto questo che mi fa pensare di stare sotto quell’albero quando vado dall’oculista.
Devo assolutamente centellinare l’ispirazione. Sono manchevole sotto molti punti di vista in questo periodo. Devo scrivere per il giornale un articolo su Truman Capote a Ischia. Sto prendendo la rincorsa da un po’ di tempo. Ma rimane ancorato come un’isola in una baia. Il pezzo non esce. Il clima è delizioso qui a Napoli. Sabato sera sono stato a Palazzo Marigliano. Al centro storico. Un posto particolare come molti in questa città. Entri in un grande portone in un vicolo, c’è un cortile interno. Sali due rampe di scale e ti trovi al cospetto di un tempio greco (l’edificio è un falso settecentesco di stile pompeiano) immerso in un giardino. Con un fontanile come sfondo. Serata bella. Si esibiva un trombettista jazz di Chicago. Ubriaco alla seconda nota. Ma i jazzisti sono così. Immersi nel giardino con un folto gruppo di socialisti contemplanti opulenze settecentesche e il trombettista, mi sono chiesto quanti votassero Berlusconi. Una mia arguta amica mi ha risposto “almeno la metà”. Ho sorriso. Va bene così. Come si fa a scrivere di T.Capote quando c’è un sole così. Quando c’è un sole così T.Capote non andrebbe nemmeno letto. E se usassi questa frase per cominciare? Intendo l’articolo? D’altronde sto ascoltando Justin Timberlake, e ve lo sto confessando; è quindi davvero questo il momento di scrivere schietto e infastidito un articolo e di gestire in maniera meno manchevole le cose che mi appartengono.