frase del giorno
Contamina il mondo col tuo “io”
E al terzo squillo di tromba il fuoco fu eccitante. Un’unica, completa, erezione nucleare. Gli arcangeli dell’apocalisse si manifestavano ballerini. “E’ arrivato il circo in città” urlavano le voci.
Tutti posti di terza fila vista lampi, fiamme ed un ardore insopportabile. Un ardore umido tipico del secondo prima dello scroscio agostano. Quando si aprono le dighe dal cielo superiore e la potenza si manifesta inequivocabile. Piccoli lampi, incerti, già baluginavano da ore all’orizzonte con una perfezione simmetrica naturale. Lucrezio irride Kant.
Frustrazioni etiliche osannavano al cielo e gli altari dell’uomo erano tavolacci con bottiglie di vino di capienza immisurabile. “Avrebbero potuto dissetare un intero treno”. Crepe già traballavano le sedie; una con una gamba in bilico sul buio nulla fremeva, scoppiettando come canapi bagnati e tesissimi.
Il mare denso come i tuoi capelli affogava su se stesso. L’epiglottide dei fondali, serrata, impediva alle onde ogni movimento. Il mare aveva perso il senso di libertà per cui era stato riempito. Un sole giallo stampato su un telone su cui si scontravano gli ultimi esploratori come mosconi su un vetro. Ma senza il caratteristico ticchettio.
E dalle ferite grandinava sangue, sangue di pensieri già pensati e ripensati, raggrumati in obblighi e direttive imprescindibili, im-mo-di-fi-ca-bi-li. “Se il destino trionfa l’uomo è schiavo”.
La velocità sopravvive e investe tutto in urto. Il vento. Il vento si manifestava solo come forza dinamica, violenta, che ti schiaffeggia i polmoni atrofizzati. Tessuti oramai meccanici, privati dalla funzione romantica del soffio della bolla di sapone.
Le mani non affondavano più nella sabbia calda della spiaggia di giugno, che con un solo piccolo gesto un brivido di calore ti cinge materno. Delle mani nella sabbia restavano solo i granelli sotto le unghie.
“E’ arrivato il circo in città”, a squarciagola urlava un bambino. Tutto si placò. E fu solo amore. Di nuovo amore.
‘Notte a tutti.
E’ necessario di tanto in tanto provare un assalto al cielo. Fare qualcosa di irrazionale non considerando le conseguenze. Siamo fatti per respirare, sentendo l’aria nei polmoni, non per sospirare.
Io prima di uscire da un casinò ho sempre puntato tutto o sul rosso o sul nero, sempre. Molte volte ho raddoppiato, alcune volte ho perso tutto. Ma è stato il prezzo che ho pagato per il mio piccolo assalto al cielo, e ne è valsa sempre la pena.
Tra l’altro in questo periodo non riesco a non ascoltare la canzone seguente.
L’albero esplose. Lo videro fin giù alla contea di Redis. Pezzi di glicine, passiflora e sicomoro ovunque.
Il vecchio beota, Carl, strattonò la moglie, intenta a leggera la “pseudomonarchia dei demoni di Weyer” mentre friggeva scorfani sulla piastra, lei si girò a guardare il lampo accecante dell’albero e rigirò subito dopo uno scorfano.
Radrovitz, il postino ubriacone, quasi cadde dalla bicicletta, stava consegnando un figlio alla vedova Dillinger, quando fu colpito dalla tremenda onda d’urto dell’albero. La vedova Dillinger dal canto suo era bloccata da circa 4 ore nell’ascensore di casa sua. Un villino a basso impatto ambientale costituito di un solo piano, edificato con i soldi ricavati dai sequestri di persona del marito, il fu Houdinì Thomas Dillinger. Medico per vocazione, anatomopatologo, e rapitore amatoriale, sia nel senso di principiante sia nel senso di stupratore di rapite. Ma lei lo amava.
Cristobal, di padre fiammingo e di madre lettone di Vibo (questo il soprannome della mamma in paese a causa della sua preferenza per il talamo) riparava sul tetto l’antenna. Lo scoppio sintonizzò all’istante tutti i canali, in qualità del segnale 10, meno che tele Padre Pio con la diretta dalla bara del Santo che era in qualità 9. Sarebbe risalito sul tetto il giorno dopo per rimodulare tutto daccapo, rischiando di non vedere più nulla.
Cassio l’orologiaio, vedendo dal suo negozio tutto quel fogliame, esclamò che si trattava dei tedeschi. L’amico Agostino lo tranquillizzò dicendo che i tedeschi erano usi far esplodere tè verde. Ripresero entrambi a riparare la pendola del dott. Calvo. Il dottore era effettivamente calvo.
Il barbiere ripuliva con una scopa il salone. La vetrata infranta dallo scoppio fece saettare vetri ovunque. Fu colpito da una dozzina di essi. Di colori blu, bianchi e rossi. Spirò serenamente come sempre aveva sognato. Il testamento fu immediatamente impugnato dal figlio legittimo, Facondo, il fratello germano del barbiere si oppose ma non vi fu mezzo. E mentre le foglie ancora non avevano smesso di cadere ovunque, Facondo già guidava garrulo la A112 Abarth del padre, come aveva promesso alla fidanzata tanti anni prima.
Clelia, sentito lo scoppio, diede licenza alla cameriera ed abbracciò il suo cane, Maxwell, che la morse. La cameriera, sull’uscio della stanza, spaventata dal boato e dal cane prese le sue cose e accelerò il passo.
In sacrestia padre Giorgio sentì le campane ondulare, pensò all’apocalisse e ne fu sollevato. Isaac il rabbino aveva perso la scommessa e gli doveva 10 pezzi da 8. Isaac il rabbino sentendo anch’egli il frastuono temette nell’apocalisse e inserendosi una matita nel naso diede un colpo secco col volto sul tavolo. La matita penetrò nel cervello senza grossi problemi. Sangue ovunque e via.
Rico mungeva la mucca che da quel giorno non diede più latte. Per un’antica promessa alla fidanzata morta in guerra non uccise la bestia e continuò a vivere astenendosi dai vizi della carne.
Salamandros, il pittore del paese, diede nell’attimo esatto del fragore l’ultimo colpo di pennello della sua vita.
La pattuglia di polizia si vide piombare sulla strada un pezzo di radice – che cadendo aveva denudato la più bella del paese, Isotta, che ora era seduta sconsolata sul ciglio del viale – e si era incastonata nella strada creando una strana forma fallica, indecente. Sopra l’abominevole, quanto casuale, scultura era incastrata la perpetua Giovanna, che rapita dal volo del tronco, ciondolava in uno stato di incoscienza e senza dentiera esclamava bestemmie e oscenità da taverna del porto. In men che non si dica i poliziotti transennarono tutto e dicevano ai passanti che non c’era nulla da guardare. I passanti rispondevano: “il cazzo non c’è nulla da guardare”.
Le nuvole come batuffoli di ovatta su un cielo azzurrissimo e soleggiato, contemplavano Ronnie, il lavavetri. Che per solidarietà all’albero si fece saltare in aria. Sporcando tutte le macchine. Redento, il commercialista, si arrabbio in pochi secondi per ben tre volte con Ronnie. Nell’ordine: perchè gli aveva pulito il vetro, perchè gli aveva sporcato il vetro con pezzi di milza e perchè non poteva più pulirgli il vetro. Redento guidava quel giorno un automobile di tipo cabriolet, con capotte abbassata.
Tamericio non si accorse assolutamente di nulla. Era infatti morto il giorno prima.
Il sindaco al suo terzo mandato era in campagna elettorale. Proclamò in un istante il lutto cittadino e chiese fondi a Legambiente. Legambiente faxò che gli alberi secondo recenti studi non erano propriamente dei vegetali. Bleffarono clamorosamente. Ma la risposta soddisfò maggioranza e opposizione, si decise allora di alzare di un millesimo di pezzo da otto la benzina. Perlomeno per pagare chi ripulisse il casino.
Timoty, Ric e Dalton erano alle prese con i preparativi della festa di Leila. Timoty ribadì sul fatto che non si organizza una festa di lunedì, perchè la gente lavora. Avevano finalmente un pretesto per smettere con i preparativi. Leila pianse tutta la notte, anche perchè amava Ronnie.
L’erpetologo del paese, Goia, quella mattina era per funghi. Nel walkmann di marca Sony sentiva la cassetta dei Talking Heads. Fu una mattinata clamorosa, un chilo circa di porcini. Nuovo record stagionale. La canzone Psyco Killer, unita alla sua totale incapacità di distinguere i funghi, gli fece sembrare l’esplosione dell’albero di una bellezza psichedelica. Sentì i colori ma non i dolori. Prognosi riservata. C’è chi dice che se la caverà.
Alabtros, detto Alzheimer, stava tornando dal calcetto, trovandosi oltre la collina dal lato non interessato dall’esplosione vide solo cadere lentamente foglie, in maniera sospesa. Ne raccolse una manciata.
Vicky e Ramon lo stavano facendo per la prima volta. Ramon era alle prese con due piccoli drammi, il reggiseno di Vicky e il preservativo. L’esplosione lo salvò dalla figuraccia. Accorse alla finestra e si accese una sigaretta post coito, perchè già in precedenza venuto all’insaputa di tutti.
Sveva stava aprendo nell’istante del botto una confezione di Somatoline. Usava assumerla per via endoteliale per vincere la cellulite. Battaglia persa da sempre. La cellulite non si combatte certamente sposando un uomo mediocre che non potrà mai pagarti una liposcultura. Il marito di Sveva era dipendente con contratto di consulenza alla Banca Centrale dei Quattro Cantoni Svizzeri, Unica Sede, con il bancomat in riparazione. Il marito di Sveva, tra l’altro era anche povero di famiglia e in quell’istante pensando dall’ufficio che fosse successo qualcosa alla moglie, pianse e ricordò i consigli, inascoltati, del padre, “che era meglio che ti imparavi un mestiere al posto che studiare fuori, che magari con un impiego alle poste a tua moglie ce lo pagavi il chirurgo, ora guarda che cesso che è, solo per colpa tua”.
Roll, l’illusionista, semplicemente sparì urlando “puff”. Il nano Rosco (da leggersi Rosko) iniziò a saltellare come un forsennato. Mezzo truccato e mezzo no, nella sua tutina sgargiante fucsia, fu il primo a soccorrere l’equilibrista caduto. Si sa che quando cade l’acrobata entrano in scena i nani. Questo non dimenticatelo mai e ricordatevene sempre nella vita.
Gaetano guardò l’esplosione direttamente, stava infatti osservando il nido di un fenicottero rosa sull’albero. Dissipata la nube di fumo marrone della corteccia, non rimase più nulla – nemmeno un piccolo insetto di marca Punteruolo Rosa -con suo sommo sbigottimento. Sorrise e si disse “guarda te la natura”. Mise un piede dopo l’altro e andò via fumando.
Quando il tribunale del popolo emise, tredici anni prima, la sua condanna capitale pensò che in fondo se l’era meritata. Nella sua testa un’unica imputazione non aveva mai accettato, non condivideva: “il cittadino Sanfedista ha piú volte fatto uso di sarcasmo, per offendere, confondere e vilipendere cittadini semplici, non intaccati da sovrastrutture leziose, al solo fine di trarre piacere personale senza trovare egli alcun giovamento materiale dal suo atteggiamento”.
L’antimaterialismo era inaccettabile per il tribunale del popolo. Si poteva transigere sul resto. In fondo per la sola accusa di “speculazione filosofica non funzionale a teorie economiche” se la sarebbe cavata con uno o due anni alla Bocconi, come anche per il terzo capo di imputazione: ” accertata non volontà di accrescere il patrimonio familiare, aggravato dalla consistenza dello stesso”. Erano reati bagattellari, di poco conto, e dire che il giudice in caso di tentata corruzione dell’imputato avrebbe anche dimezzato la pena. Ma sul sarcasmo non ci fu arringa che tenne. L’avvocato si era appellato ad esempi illustri, citando puntate di show televisivi, di reality, ma il pubblico inquirente, aveva smontato uno ad uno gli esempi, appellandosi al fatto che il sarcasmo usato nei programmi tv trattavasi di finzione scenica, certamente censurabile ma comunque finzione, utile all’intrattenimento del pubblico e quindi al profitto dell’inserzionista. Il Sanfedista d’altronde era stato accusato di sarcasmo da varie delazioni anonime, che erano preferibili a quelle nominali perchè in maggiore sintonia con la visione sociale del Paese.
Mentre procedeva verso il patibolo ad ogni passo rifletteva sul sarcasmo. Metro massimo di valutazione dell’individuo che lo applica e di chi lo subisce.
“Il sarcasmo – si ripeteva – è un circolo di privilegiati è un’attestazione di appartenenza ad un circolo.”
Quando era giovane, alle prime armi, aveva applicato infruttuosamente il sarcasmo con persone non in grado di coglierlo. Si ricordava quella magnifica citazione al cassiere del supermercato, in cui il Sanfedista accortosi che l’inserviente dimenticandosi di far pagare la busta l’aveva rapidamente aggiunta al computo, citò la presenza di Dio in ogni oggetto secondo Eraclito, il panteismo. Ricordando al cassiere che effettivamente trovandosi Dio in ogni cosa era ben giusto dare un valore anche ad una busta di plastica biodegradabile, sponsorizzata. Il cassiere annuì e sorrise beota, non cogliendo in alcun modo lo spirito delle parole.
Crescendo il Sanfedistà iniziò poi a modulare il suo sarcasmo in base all’interlocutore. Perchè il sarcasmo non essendo mezzo didascalico, non avendo un compito educativo, deve sempre adeguarsi, ove necessario, al livello di chi lo subisce, altrimenti la sua forza degrada fino a diventare impalpabile, rovinando così il costrutto.
Passo dopo passo la sedia elettrica, alimentata a pannelli solari e certificata ISO, si faceva più visibile. Per qualche secondo provò piccoli fremiti agli alluci, che rapidamente, catalogò come rimorsi. Sorrise. Cercò qualcuno dei suoi oltre il vetro che dava sulla sala patibolare. Notò solo il cameraman della televisione e una compagna di scuola, Gabriella, vessata per anni, con un cartello in mano su cui era scritto “Goditi il viaggio!”. L’ ex compagna di classe piangeva di rabbia. Il Sanfedista, pensò in quegli istanti alle sue ultime parole, quelle da dichiarare spontaneamente prima del buio, l’ultimo sussurro da il senso ad un’intera esistenza. “Potrei dire rivolgendomi a Gabriella che non ho mai fatto un viaggio con un panorama peggiore, oppure potrei dirle che assistere alla mia esecuzione era l’unico modo per vedere un uomo che la guardava elettrizzato.” Ma poi gli venne in mente quello che avrebbe detto.
Era legato sulla sedia, le ultime pratiche, il conforto religioso, la richiesta se avesse voluto un cappuccio per coprirgli il volto da cui sarebbe dipeso l’orario di messa in onda: fascia protetta con cappuccio, non protetta senza.
“Ha il condannato un’ultima dichiarazione?”
“Gabriella ti ho sempre amata, cercavo solo la tua attenzione, perdonami”. Lo disse serio, impassibile, con gli occhi pieni di luce.
Seguì un secco rumore di scintillio. Gabriella scoppio a piangere, convinta dalla dichiarazione – in realtà fasulla – che donò al Sanfedista un ultimo sorriso e alla spettatrice un illusione e sensi di colpa che si legarono a lei per il resto dei suoi giorni.
“Avrei preferito non incontrarti mai”
una volta me lo disse anche uno che tamponai…
A trovare non ci vuole nulla è a perdere che è difficile, in tutti i sensi.
Io, un amico e circa altri 60 mila napoletani ieri non sapendo che fare abbiamo deciso di investire parte delle nostre risorse andando allo stadio. Abbiamo visto infranta un’epica condivisa illusione. Ora l’illusione non è come il dolore, che se è diviso è meglio sopportato, l’illusione per stessa definizione è l’istante prima della disillusione e la disillusione con più è condivisa più e cocente. Disilludersi da soli fa meno male che disilludersi in mille, diecimila o semplicemente in due.
La squadra stanca, il pubblico sorrideva amaro non riconoscendosi più nella situazione, ci si guardava tra di noi aspettando un cenno che non arrivava, palle perse, gol mangiati, preludio alla tragedia sportiva. Sigarette infinite, silenzio, due reti prese e giù al tappeto, silenzio, silenzio e applauso finale da chi ha dato tutto quello che poteva da chi semplicemente “non doveva finire così” ma tant’è…
La colonna sonora di Bill Conti di seguito è perfetta, si divide esattamente in tre parti: illusione, disillusione e speranza.
Quando decidi di ribaltare il tavolo togli sempre il servizio buono, potresti decidere di riutilizzarlo.
“O” è l’ultima lettera di Addio. Che poi noi italiani abbiamo un cattivo rapporto con addio. Gli spagnoli e i francesi no. Sarà che siamo figli del teatro, sarà che per noi l’addio è un “a mai più”, nel bene o nel male. Può essere sussurrato o urlato con rabbia sbattendo una porta. La sostanza non cambia. Magari cambiamo noi. L’addio infatti acquisisce un certo senso passato un po’di tempo. Quella semplice parola si rafforza con lo scorrere dei giorni e degli anni. Il tempo trascorso darà valore all’ultima lettera della parola. La “o”. L’ultima emissione che noi vorremmo rivolgere a qualcuno da cui ci vogliamo o dobbiamo separare. Le cause poi potrebbero essere infinite, ma oggi non ci riguardano. Ci fantasticheremo poi, ce ne convinceremo, o ce ne danneremo. Gli “eppure”, i “magari”, gli “un giorno”, i “forse poi”, sono tutti corollari alla “o”. Rimpianti e rimorsi, ricordi, rabbie, ripensamenti… le “r” figlie della “o”. Tonda e per questo finita, fosse una “l” di lontananza o di “lasciarsi” sarebbe tutto diverso, la “l” tende infatti in quanto linea immaginaria non chiude un bel nulla. La “o” di addio invece si porta dietro, girando su se stessa, un piccolo mondo. Un cosmo di cose finite, messe in un cassetto e chiuse.